Greenwashing si potrebbe rendere in italiano (ma è già una parola translinguistica) con ambientalismo di facciata. Nella sostanza la parola designa una strategia, più fittizia che fattuale, tesa ad affermare, soprattutto attraverso la comunicazione, le credenziali ambientaliste di un’attività o di un gruppo.
Nel mondo delle imprese e della finanza, di greenwashing ce n’è a bizzeffe tanto da diventare irritante non solo per gli ambientalisti veri ma anche per i politici vicini al mondo delle corporation.
Per esempio il governatore della Florida e probabile aspirante candidato presidenziale del Partito repubblicano, Ron DeSantis, ha censurato pubblicamente BlackRock, la più grande società di gestione del denaro del mondo, e altri gruppi finanziari per la politica di investimenti in fondi ESG (Environmental, Social, Governance).
Questi fondi si prefiggono di costruire un portafoglio di investimento che valuti aziende e Paesi rispetto al loro grado di rispetto della sostenibilità, misurando fattori ambientali, sociali e di governance.
In questo senso gli ESG, stimati per un valore di 40 trilioni di dollari, non sono affatto greenwashing in sé. Potrebbe esserlo invece la loro sottoscrizione se non inserita in una strategia di riconversione delle attività in azioni sostenibili.
ESG una manifestazione del wokism?
Questi fondi sono visti da DeSantis come una delle espressioni più evidenti del “woke big business” (il sinistrismo nel grande mondo degli affari), capeggiato da Disney e appunto da BlackRock.
“Ci dobbiamo assicurare che gli ESG non contagino le decisioni a livello statale come pure locale nella pubblica amministrazione. Dobbiamo inoltre assicurarci che le aziende energetiche, i venditori di armi e altre imprese non siano discriminate nelle decisioni di investimento dei gruppi finanziari”, ha dichiarato DeSantis.
Ed è subito passato ai fatti: il Tesoro dello Stato della Florida ha congelato un miliardo e mezzo di dollari di titoli a lungo termine affidati a BlackRock, rimuovendolo come gestore di 600 milioni di dollari di investimenti a breve termine con l’obiettivo di affidare tali attività ad operatori non ESG entro la fine del 2023.
Il Ceo di BlackRock, Larry Fink, ha dichiarato che gli stati a guida repubblicana hanno ritirato circa 4 miliardi di dollari dal portafoglio BlackRock a causa delle preoccupazioni ESG. Anche la Disney ha avuto la sua bella stangata da DeSantis.
Oltre questo clangor di buccine, c’è chi fa davvero sul serio sul tema delle politiche ambientali, anche tra le grandi corporation. La punta di diamante è Patagonia.
Patagonia: azionista unico, pianeta Terra
Patagonia, un’azienda californiana di abbigliamento molto conosciuta anche in Italia dagli amanti dello sport, non può essere certo inclusa nella blacklist del greenwashing. Questo non solo per la sua storia ma anche per le decisioni che il fondatore, l’83enne Yvon Chouinard, ha recentemente assunto riguardo alla missione e alla proprietà dell’impresa che ha avviato nel lontano 1973 dopo un viaggio in Patagonia.
Lo ha fatto in una lettera aperta dello scorso settembre nella quale mette a posto la spinosissima questione della successione che affligge tutte le società con un fondatore visionario. Per prima cosa ha stabilito che i profitti di Patagonia dovranno essere utilizzati per combattere il cambiamento climatico.
Chouinard, che ha un patrimonio netto personale di 1,2 miliardi di dollari, ha dichiarato di voler trasferire la proprietà dell’azienda, già di famiglia, a un trust, il Patagonia Purpose Trust, e a un’organizzazione no-profit, il Holdfast Collective, con la missione destinare le risorse generate dall’attività dell’impresa a cause ambientali. L’azienda prevede di donare 100 milioni di dollari all’anno a Holdfast Collective. Si stima che Patagonia valga 3 miliardi di dollari.
Chouinard ha scritto nella lettera:
“La Terra è ora il nostro unico azionista. Invece di estrarre valore dalla natura e trasformarlo in ricchezza per gli investitori, useremo il valore creato da Patagonia per proteggere la fonte di ogni ricchezza. Ogni anno, il denaro che guadagneremo dopo aver reinvestito nell’azienda sarà distribuito come dividendo a chi combatte la crisi ambientale”.
Lettera aperta di Yvon Chouinard
Stakeholder capitalismo e obiettivi di lunga data
La società, comunque, non cambierà natura. Resterà un’impresa privata commerciale, anche se Chouinard ha valutato altre opzioni come quella della vendita e della quotazione in borsa. Adesso le azioni con diritto di voto sono in mano al Patagonia Purpose Trust, supervisionato dalla famiglia, mentre quelle senza diritto di voto sono state cedute al Collettivo Holdfast.
Chouinard ha scartato la quotazione in borsa dell’azienda perché sarebbe stata un “disastro”, in quanto le aziende quotate sono “sotto inaudita pressione per creare guadagni a breve termine a scapito della vitalità e della responsabilità a lungo termine”.
La scelta di Patagonia riflette una tendenza che si va sempre più affermando tra un numero crescente di aziende che si orientano verso il cosiddetto “stakeholder capitalism”. Questo capitalismo, diciamo sociale, si prefigge di ottenere un bilanciamento tra i benefici finanziari degli azionisti e gli interessi dei dipendenti, dei clienti, dell’ambiente e delle comunità.
Le radici di Patagonia
Non c’è da meravigliarsi molto delle scelte e dell’etica di Patagonia. Yvon Chouinard è un buddista Zen che ama l’alpinismo e ha sagomato il logo aziendale sul profilo di una montagna della Patagonia, il monte Fitz Roy, nella parte meridionale della regione andina, la cui vetta supera i 3400 metri. Ne era rimasto stregato durante una spedizione nella regione nel 1969.
Nel 1957 aveva avviato il mestiere di fabbro iniziando a produrre e vendere attrezzature per l’alpinismo che non danneggiassero le rocce. Lui e gli amici le utilizzavano per scalate nel Parco Nazionale dello Yosemite.
La penultima CEO di Patagonia, Rose Marcario, che ha lasciato improvvisamente la direzione dell’azienda nel giugno del 2020, pratica il buddismo tibetano e nel 2021 ha deciso di ritirarsi a vivere nella foresta pluviale.
Non prima, però, di aver avviato, per conto di Patagonia, una causa contro il presidente Donald Trump per la decisione di ridurre rispettivamente dell’85% e del 50% l’area protetta di due monumenti nazionali nello Utah, il Bears Ears National Monument e il Grand Staircase-Escalante.
Il suo successore e attuale Ceo, Ryan Gellert, è un appassionato alpinista e sciatore. Ha trascorso la sua intera carriera lavorativa in aziende di prodotti per l’attività all’aria aperta e, anche se non è buddista, da decenni è un attivista politico e ambientale. Il suo mantra è dantesco: “c’è un posto speciale all’inferno per coloro che non combattono il cambiamento climatico”. Figuratevi dove saranno immersi?
L’attivismo politico-ambientalista di Patagonia
Per oltre 45 anni, l’azienda ha fatto politica con una intensità e a un livello inusuale per un’impresa commerciale. Si autodefinisce “azienda attivista” e si batte pubblicamente per la tutela dell’ambiente, il commercio equo e solidale e standard di lavoro più severi. Sostiene migliaia di attivisti di base e organizzazioni ambientali.
Dal 1985 l’azienda devolve l’1% del fatturato alla conservazione e al ripristino dell’ambiente. In tutto si stima che abbia donato 90 milioni di dollari a gruppi ambientalisti locali.
In Alaska, l’azienda ha sostenuto gli sforzi per evitare che i residui delle lavorazioni minerarie inquinassero la baia di Bristol, una enorme zona di pesca del salmone selvaggio. Nel Parco Nazionale di Yellowstone, Patagonia si è spesa nella protezione degli orsi grizzly. In Polonia ha sostenuto le attività volte alla protezione delle foreste. È inoltre intervenuta nella politica internazionale opponendosi all’accordo di libero scambio del Nord America e alla Trans-Pacific Partnership.
Patagonia ha inoltre prodotto lungometraggi e documentari, tra cui DamNation, che mostra i danni prodotti dalle dighe e dagli sbarramenti dei fiumi. Ogni due anni, ospita una conferenza durante la quale gli attivisti ambientali si scambiano consigli e buone pratiche per le attività di protesta, la raccolta di fondi e per le cause legali.
Nel 2011, la società in prima persona ha pubblicato un annuncio sul New York Times con la scritta “Non comprate questo giaccone”, per scoraggiare il consumo eccessivo di capi d’abbigliamento.
Patagonia e il greenwashing
In una intervista al “New York Times” il Ceo di Patagonia Ryan Gellert ha risposto in questo modo alla domanda del giornalista David Gelles che gli domandava come poteva rassicurarci che tutto l’attivismo di Patagonia non fosse solo marketing, ma qualcosa di differente dal “greenwashing”?!
“È assolutamente necessario che le persone prendano ciò che proviene dal mondo degli affari con un certo scetticismo. E se lo fa anche con noi, benissimo. Questo è qualcosa di sano. Se volete davvero capire un’azienda e il suo intento, guardate quello che fa e poi giudicate. Sono a mio agio con il lavoro imperfetto ma costantemente impegnato e onesto di Patagonia. Cerchiamo di essere sempre trasparenti, sia all’interno che all’esterno, anche riguardo al lavoro che stiamo facendo e alle nostre mancanze. La mia convinzione è che il nostro più grande contributo non è il denaro che doniamo per le giuste cause. Non sono neppure le singole questioni alle quali abbiamo dato il nostro appoggio. Non è neppure aumentare la scala dell’attivismo ambientale con forti politiche di sostegno. È piuttosto operare nelle viscere del business e dimostrare che le aziende possono esistere per fare qualcosa di più che massimizzare la ricchezza dei loro proprietari, e anche farlo davvero nel lungo periodo in modo coerente con azioni grandi e piccole. Se dovete cambiare lo zainetto pensateci bene prima di farlo, se poi è proprio indispensabile sapete di quale marca comprarlo.
Intervista di Ryan Gellert, Ceo di Patagonia, al New York Times
Fonti:
Emma Dunkley e Gary Jones, Patagonia founder hands company to trust to tackle climate crisis, “The Financial Times”, 22 settembre 2023
Patrick Temple-West, ESG onslaught resisted, “The Financial Times”, 16 febbraio 2023
David Gelles, Patagonia’s Former C.E.O. Retreats to the Rainforest, “The New York Times,” 18 febbraio 2021
David Gelles, Patagonia v. Trump, “The New York Times,” 5 maggio 2018
David Gelles, The Patagonia C.E.O.’s Mission: ‘Save Our Home Planet’, “The New York Times”, 10 dicembre 2021