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Elezioni Venezuela, Maduro verso la sconfitta: “Se perdo sarà un bagno di sangue”

Elezioni presidenziali in Venezuela, si vota domenica 28 luglio. In carica dal 2013, il leader vede la sua parabola volgere al termine: lo sfidante Gonzalez Urrutia è in vantaggio di oltre 20 punti nei sondaggi. Sulla regolarità del voto vigila la comunità internazionale anche se Caracas ha negato l’accesso al rappresentante Ue

Elezioni Venezuela, Maduro verso la sconfitta: “Se perdo sarà un bagno di sangue”

Tensione altissima in Venezuela, alla vigilia delle elezioni presidenziali che secondo i sondaggi dovrebbero porre fine, dopo 25 anni, al chavismo: si vota domenica 28 luglio. Ad agitare le acque è proprio il presidente uscente Nicolas Maduro, del Partito socialista unito del Venezuela, quello ispirato alla rivoluzione bolivariana e portato al potere dal compianto Hugo Chavez di cui Maduro, ex autista di autobus, fu il delfino. Alla guida del Paese sudamericano ininterrottamente dal 2013, Maduro sente più che mai l’odore della sconfitta e della fine di un’era: costretto dagli Stati Uniti ad ammettere la candidatura dell’opposizione e la presenza di osservatori internazionali durante il voto in cambio di un allentamento delle sanzioni sul petrolio, oggi il leader si trova parecchio indietro nei sondaggi, che danno lo sfidante Edmundo Gonzalez Urrutia in vantaggio di 20 o addirittura 30 punti. E per questo già nei giorni precedenti al voto sta giocando la carta del caos, accusando gli oppositori di essere fascisti e sostenendo – per spaventare l’elettorato – che una vittoria di Gonzalez Urrutia provocherebbe un “bagno di sangue” e una “guerra civile”. In poche parole, Maduro le sta provando tutte per ribaltare i pronostici e soprattutto sta lasciando intendere che non accetterà serenamente la sconfitta, avvelenando il clima nel Paese e incoraggiando scontri e tensioni.

Maduro isolato: elezioni in Venezuela tra repressione e malcontento

Il presidente uscente, a caccia del terzo mandato, è sempre più isolato. L’anno scorso sembravano esserci stati segnali distensivi con Washington, con cui si era giunti ad una parziale sospensione dell’embargo sul petrolio in cambio di uno scambio di prigionieri: la Casa Bianca diede il via libera alla liberazione di Alex Saab, uomo vicinissimo a Maduro, mentre Caracas rimetteva in libertà 28 prigionieri, di cui 10 statunitensi. L’accordo però prevedeva anche una corretta e trasparente competizione elettorale, con la presenza di osservatori sia dagli Usa che dall’Europa. Qui invece Maduro non è stato di parola e difatti dallo scorso aprile il Venezuela è tornato nella morsa delle sanzioni, dopo che è stato impedito di candidarsi sia a Maria Corina Machado, che aveva vinto le primarie dell’opposizione, sia alla sua delfina Corina Yoris. Alla fine è saltato fuori, dal nulla, il nome del quasi sconosciuto ex ambasciatore Edmundo González Urrutia, che nonostante la candidatura improvvisata sta volando nei sondaggi, a dimostrazione di un malcontento ormai consolidato nei confronti di quella che a tutti gli effetti si può considerare una dittatura, o per meglio dire una democratura. Il regime di Maduro è infatti accusato di centinaia di violazioni dei diritti umani: solo negli ultimi sei mesi sono stati arrestati 46 oppositori, ma secondo l’Onu sarebbero migliaia dal 2014 ad oggi e 7 milioni di persone, praticamente un quarto della popolazione, sono state costrette a fuggire all’estero a causa di repressione e povertà.

Il regime di Maduro è agli sgoccioli, ma il passaggio sarà turbolento

Negli ultimi anni infatti la situazione economica è precipitata, con una crescita spaventosa della povertà, a causa di un’inflazione che nel 2018 aveva addirittura toccato il 130.000%. Il Pil pro capite venezuelano, che nel 2015 superava i 10.000 dollari, oggi è di appena 1.600 dollari, secondo le stime dell’università Ucab. Il salario minimo è di 3,6 dollari al mese, di gran lunga il più basso dell’America Latina e tra i più bassi del mondo: in Venezuela il 52% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Come se non bastasse, Maduro continua a sfidare la comunità internazionale: lo scorso dicembre ha indetto un referendum-farsa per giustificare l’invasione e la conseguente annessione dell’Essequibo, una parte del territorio della confinante Guyana ricca di petrolio offshore. Il leader aveva poi preferito concentrarsi sulla campagna elettorale, anche perché gli Stati Uniti, che in Guyana di fatto comandano attraverso gli interessi della Exxon, gli avevano fatto intendere che era meglio lasciar perdere. Ma per qualche settimana sul Sudamerica erano persino soffiati venti di guerra, con l’imbarazzo degli altri leader dell’area. Infine, l’ultimo sgarbo diplomatico: in barba agli accordi presi, Maduro ha recentemente negato l’ingresso nel Paese, per vigilare sulle elezioni, al rappresentante dell’Unione europea per i diritti umani, lo svedese Olof Skoog. Caracas ha motivato la decisione con le misure restrittive decise da Bruxelles nei confronti di 54 funzionari chavisti, sottoposti a divieto di viaggio e congelamento dei beni per aver violato i diritti umani e di aver compromesso la democrazia e lo Stato di diritto in Venezuela. Il regime ha i giorni contati, ma il passaggio di consegne non sarà indolore.

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