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Le morti sul lavoro che un Paese civile non può più sopportare

Le morti sul lavoro non danno pace al Paese. Chi controlla le sanzioni che non ci sono

Le morti sul lavoro che un Paese civile non può  più sopportare

In un ideale cimitero formerebbero un solo, unico, immenso, reparto di lavoro con la bandiera tricolore dell’Italia. Tutti insieme, in migliaia, senza avere avuto il tempo di capire cosa stesse accadendo. Perché la giornata di lavoro stava mettendo fine alla propria vita. Gli ultimi cinque lavoratori morti ieri a Casteldaccia non mostrano, ormai, solo la fragilità nella sicurezza sul posto di lavoro. Sono la faccia sporca di un sistema immaturo, di un mondo dove si scrivono regole per salvarsi l’anima e la reputazione, sapendo che quelle regole saranno largamente inapplicate. L’efficacia di centinaia di pagine, articoli, commi, sentenze, è subordinata a due essenziali condizioni: i costi e la responsabilità. I costi sono del datore di lavoro, su chi partecipa alle gare d’appalto, su chi spesso vive in fabbrica – e muore – accanto ai propri dipendenti.

Ma la seconda condizione – e qui, purtroppo, bisogna sollevare il grande telo conformista che ci avvolge tutti – ricade sui singoli, su chi controlla, su chi richiama al rispetto delle regole. Non perché sono scritte, ma perché sono da applicare e basta. Non si equivochi: i lavoratori vanno rispettati sempre, da vivi e da morti. Quante volte al giorno il caporeparto, il capo-officina, il geometra di cantiere, l’addetto alla sicurezza controlla, sgrida, rimprovera il lavoratore che non indossa i dispositivi di sicurezza previsti? Perché si tollera il casco adagiato sul muretto e non in testa? I magazzini, i container, le baracche dell’agricoltura, i furgoni dell’edilizia, hanno sempre tutto quello che necessita per salvare la vita umana? Aspettiamo pure che arrivino gli ispettori del lavoro, certo, ma sul posto di lavoro ci siamo noi. A contatto con una pressa, su un ponteggio, in un cunicolo, si sta in sicurezza. Tutto ciò che viene denunciato da sindacati, istituzioni, forze politiche è giusto. Ma è sui luoghi di lavoro che non ci si scordi mai, mai, di tutelare la propria incolumità.

Un tempo nelle aziende raccontavamo gli scioperi bianchi. Quanti sono disposti a farlo oggi, se non hanno ciò che è utile per non farsi male o morire? Denuncia civile, si dice, davanti a tragedie che ci umiliano anche con qualche risentimento. Può un cittadino chiamare i carabinieri se nota un operaio senza il casco, le attrezzature adeguate o i dispositivi di sicurezza? Così, per semplice buon senso mentre cammina. Quando andiamo nelle grandi catene di distribuzione li notiamo o no? Quanti datori di lavoro sanzionano i propri uomini perché non indossano le protezioni? A Casteldaccia la morte ha colpito uno, due, tre… cinque volte lavoratori in un tombino.

Nessuna maschera, forse nessuna competenza per quel lavoro, dove bisognava sapere che c’era puzza ed evitare l’ennesima inaccettabile strage di innocenti. Si dice anche, più nessun alibi, si faccia chiarezza su tutte le morti sul lavoro! Si mettono a terra le bare di cartone nelle piazze e ci commuoviamo all’ascolto di omelie e preghiere. Ma indossare una maschera antigas, un paio di guanti, una cintura di sicurezza, una calzatura di protezione, soffrire per non aver controllato, lagnarsi per aver ricevuto un giorno di sospensione, senza paga, per negligenza, pigrizia, sono cose che la settima economia del mondo non può e non deve più perdonarsi. E autocommiserarsi è peggio.

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