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Wirecard, il Ceo in manette. Storia di un buco da 2 miliardi

Un caso Parmalat alla tedesca, ecco cosa sta emergendo dalla vicenda dell’ex gioiello Fintech che le autorità hanno coperto fino all’ultimo, dopo lo scoop del Financial Times. Le trame di Markus Braun e tutte le banche coinvolte nel crack

Wirecard, il Ceo in manette. Storia di un buco da 2 miliardi

Uno scandalo finanziario minaccia la reputazione della finanza tedesca, sopravvissuta ai non pochi infortuni di Deutsche Bank. Ma stavolta il danno reputazionale è ben più grave. Stamane la polizia di Monaco di Baviera ha proceduto all’arresto di Markus Braun, 60 anni, dal 2002 a capo di Wirecard, il gioiello del Fintech tedesco, leader nei sistemi di pagamento elettronico. Le accuse? Falso in bilancio e manipolazione dei prezzi, tanto per gradire, in attesa di nuove, inevitabili contestazioni che seguiranno dopo che l’istituto ha dovuto confessare che non esiste traccia di 1,9 miliardi che, secondo il bilancio presentato a febbraio (mai approvato), dovrebbero essere depositati, a nome di Wirecard, presso due banche delle Filippine: la BDO Unibank e la Philippines Islands Bank. Entrambi gli istituti, con il conforto della banca centrale di Manila, hanno sostenuto di “non aver mai avuto alcuna relazione con Wirecard”, come ha dovuto constatare, stranito e sconvolto, Felix Hufeld, il responsabile della Bafin, l’organo supremo di controllo delle attività finanziarie d’oltre Reno che ha ammesso “il disastro completo”. “È lo scacco – ha aggiunto – delle varie attività dei controllori dentro e fuori le società. Nonostante le dozzine di controlli di revisori, controllori e delle autorità non siamo stati in grado di garantire la verità. È una vergogna”.

L’autocritica fa senz’altro onore al presidente. O, almeno, la farebbe se non fosse che, fino all’ultimo, le autorità hanno protetto Wirecard minacciando i giornalisti del Financial Times, rei di aver avviato l’inchiesta che ha scoperchiato le trame di Braun e la resistibile ascesa di Wirecard, nata nel 1999 per assicurare i pagamenti on line di siti pornografici per poi salire, passo dopo passo, fino al Dax 30, il paniere delle blue chips al fianco dei nomi più mobili dell’industria e della finanza. Pur di fendere il prestigio di quest’ultimo “gioiello” del capitalismo tedesco in versione digitale, la Bafin, senza fare verifiche sulle contestazioni a Wirecard, ha citato in tribunale il quotidiano della City con l’accusa (verosimile) di aver favorito le vendite allo scoperto effettuate dalle “gole profonde”.

Insomma, un caso Parmalat alla tedesca, ma aggravato dal comportamento della Consob d’oltre Reno, più preoccupata di difendere il marchio di un’azienda che impiega 6 mila dipendenti che non gli azionisti che nel giro di tre giorni hanno visto andare in fumo più del 90 per cento dell’investimento. La caduta del dio minore della Baviera ha coinvolto nel crollo nomi illustri; Dws, la società di gestione dei fondi di Deutsche Bank ci ha rimesso buona parte del miliardo investito nel Fintech. Segue a ruota il Credit Agricole, assieme a diverse boutiques finanziarie della City. Ma l’elenco comprende anche BlackRock, Amundi, Vanguard e così via. Si è salvato solo chi, come il fondo Sycomore, aveva trovato “poco convincenti” i criteri di governance del gruppo. Ma nella rete sono finiti diversi Etf verdi: herr Braun ha rispettato il vincolo di non investire nelle armi o nel carbon fossile. Anzi, non ha investito affatto.      

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