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William Burroughs, fotografo della Beat Generation

Un millennial dal secolo breve

È passato oltre un secolo della nascita di uno dei più influenti, controversi e iconici scrittori del secolo breve: William S. Burroughs. Vista la freschezza della sua opera, gli si darebbero 25 anni. Un millennial che però viene dal secolo breve e dalle sue rivoluzioni culturali e di costume. 

Il grande scrittore e artista della beat generation è stato uno dei più esasperati sperimentatori e artisti multimediali del Novecento. La sua ricerca di nuove modalità espressive è stata incessante, ben oltre la paranoia. Ha lasciato un segno indelebile nella formazione della cultura contemporanea tanto che oggi la maggiore espressione della contemporaneità, il web, non poteva che semplicemente raccogliere e portare a compimento.

Infatti il modo artistico ed espressivo dominante del web è il mash-up, un frullato di materiali visuali, testuali e iconici, con legami non sempre logici tra loro. Qualcosa di più di una tecnica che il grande scrittore aveva sperimentato con i media e gli strumenti disponibili al suo tempo.

Artista maledetto, scrittore inquieto, dalla vita vissuta all’insegna della sfrenatezza e libertà delle passioni, Burroughs ha sviluppato un tipo di pensiero creativo onnicomprensivo, in cui vita e artesono indissolubilmente legate, così fortemente da stritolarsi a vicenda.

Proprio da questa visione di indissolubilità tra arte e vita, la generazione beat alla quale egli appartiene e della quale è considerato, a ragione, uno dei padri e numi tutelari, riprende infatti la tecnica del collage di matrice surrealista in cui le immagini non sono prescrittive o realistiche, ma lavorano per assonanze dell’animo, evocative e stranianti, e operano degli ingovernabili avanzamenti o retrocessioni sulla linea spazio-temporale similmente a quanto avviene in Pasto nudo, i cui capitoli possono essere letti in qualsiasi ordine e il libro sembra funzionare anche abbandonando il nostro codice di lettori “sinistra-destra-alto-basso” per tuffarci nel caleidoscopio delle immagini.

Cosa c’entra Burroughs con la fotografia?

ÒOltre a essere uno dei più influenti, controversi e iconici scrittori del secolo breve, Burroughs è stato un fotografo e un’artista visuale a cui ha anche reso omaggio anche una esposizione allestita a Londra, nel 2014, per il centenario della nascita.

Una delle foto allora esposte ritrae Burroughs con lo sguardo intenso e stralunato al tempo stesso mentre, per un attimo, abbassata la macchina fotografica, guarda oltre chi lo sta immortalando, oltre la cornice della foto, oltre quel giorno inondato di luce in un giardino di Tangeri

Il viaggio terrestre di Burroughs inizia come figlio di una ricca famiglia di Saint Louis, il cui capostipite fu l’inventore di una macchina calcolatrice meccanica. A ben guardare, i suoi eccentrici collage fotografici vengono forse anche un po’ da lì, dalla smania di aggiungere, scatto dopo scatto, punti di vista che gli occhi annebbiati dalla droga non riuscivano più a vedere, ma l’obbiettivo della macchina fotografica sì. Scrive a riguardo, Burroughs stesso:

Cammina attraverso un isolato della città con una macchina fotografica e registra quello che noti, muovendo la macchina il più vicino possibile alla direzione dei tuoi occhi. Il punto è di fare della macchina i tuoi occhi e di fotografare ciò che essi riescono a cogliere dell’immagine generale. Nel contempo, fotografa delle immagini della strada con il grandangolo, da una serie di posizioni fisse. La strada dell’operatore è, naturalmente, la strada come è vista dall’operatore. È differente dalla strada vista da un’ampia angolazione. Molto, infatti, si perde […] In questo modo si distruggono i propri schemi visivi automatici. (da Taking Shots. The Photography of William S. Burroughs, a cura di Patricia Allmer e John Sears, Prestel, MunichLondon-New York 2014, p. 30)

È evidente che la fotografia e il collage fotografico non sono per Burroughs soltanto un contorno al piatto principale della scrittura, ma un mezzo con autonoma dignità espressiva, che proviene dalla letteratura delle avanguardie e che nel grande fiume della letteratura rientra, dando senso al metodo del cut-up di BrionGysin, che egli utilizza come tecnica compositiva sciamanica, in uno stato di trance lisergica.

La generazione beat alla quale egli appartiene e della quale è considerato, a ragione, uno dei padri e numi tutelari, riprende infatti la tecnica del collage di matrice surrealista in cui le immagini non sono prescrittive o realistiche, ma lavorano per assonanze dell’animo, evocative e stranianti, e operano degli ingovernabili avanzamenti o retrocessioni sulla linea spazio-temporale similmente a quanto avviene in Pasto nudo, i cui i capitoli possono essere letti in qualsiasi ordine e il libro sembra funzionare anche abbandonando il nostro codice di lettori “sinistra-destra-alto-basso” per tuffarci nel caleidoscopio delle immagini.

Verso il mash-up

Il suo intento, però, non era minimamente artistico. Pur conoscendo i lavori di Robert Rauschenberg, che dell’assemblageaveva fatto un uso innovativo, le immagini di Burroughs sono un ulteriore metodo per viaggiare in più dimensioni: “Il fotocollage è un mezzo che deve essere usato con capacità e precisione, se vogliamo arrivare a destinazione.” (pag. 23)

Lo stesso David Cronenberg, quando per primo ebbe il coraggio di tentare una riduzione cinematografica del libro nel film NakedLunch, 1991, finì per calcare la mano su questi salti spazio-temporali, mescolando scene del libro con fatti della vita dello scrittore e aggiungendo così un altro livello, stavolta personale e quindi esterno alle visioni di Burroughs, per raccontare il meccanismo della scrittura

La mostra del 2014 includeva fotografie e collage, ritratti e autoritratti, immagini di musei, stanze, corridoi, camere d’albergo, schermi di cinema, ambienti urbani, a volte intervallati con immagini ritagliate da libri, riviste o pubblicità, che Burroughs abbracciava spontaneamente nel suo archivio come fossero emanazioni della sua creatività.

Come raccontato dai curatori nell’introduzione all’ottimo catalogo edito da Prestel, Burroughs ritagliava, senza preferenza alcuna, qualsiasi giornale gli passasse tra le mani: dal “Saturday EveningPost” al “Time”, a riviste di letteratura di vario genere.

Allo stesso tempo, egli ribatteva a macchina testi, ad esempio di Rimbaud o Shakespeare e, tagliandoli e riarrangiandone l’ordine, attendeva che essi generassero nuove immagini e visioni autenticamente poetiche, poiché provenienti dalla grande tradizione letteraria. Iniziò anche a seguire dei metodi precisi di taglio, quasi seguendo dei mandala immaginari, che aumentavano il senso della scrittura seguendo iperboli invisibili.

Questi lavori dello scrittore visionario rimasero sconosciuti agli appassionati e agli studiosi di fotografia fino agli anni Ottanta, quando Burroughs divenne una figura leggendaria per la sua generazione e per quelle a venire, e questa produzione segreta fu esposta nel 1982 alla galleria B2 di Londra.

Come è facile immaginare, Burroughs non era solito datare né classificare in alcun modo le sue immagini, disponendole e utilizzandole a seconda della sua inspirazione momentanea e affiancando foto di fidanzati del passato e di quelli del presente, foto dei suoi familiari in varie fasi della loro vita e rifotografandoli, quasi a volerli fissare un eterno pasto nudo, definito da Jack Kerouac come quell’attimo in cui si vedono cristallizzate e immobili le pietanze che gli ospiti di una cena hanno infilato sulla punta della loro forchetta

La computer art di Burroughs

Le immagini più inquietanti di questo intrigante corpus fotografico sono certamente le serie basate sul processo di Mise en abîme, realizzate su mini set fotografici, prodotti in collaborazione con Ian Sommerville. Quest’ultimo, uno sconosciuto tecnico dei computer, divenne uno dei tanti amanti di Burroughs, e programmò intorno al 1960 un generatore casuale di sequenze utilizzato da Gysin per la sua tecnica del cut-up. In seguito, sempre con Gysin, Burroughs lavorò alla Dreamachine, una macchina per influenzare le onde alfa del cervello producendovi così immagini, pur mantenendo gli occhi chiusi.

Ecco come Burroughs descrive questa tecnica:

Nel tempo libero ho fatto un piccolo esperimento con il collage. Fare un collage di fotografie, disegni, quotidiani ecc. Ora fare una foto di questo collage. Ora fare un collage delle immagini. Fotografa — taglia — fotografa — taglia, capito? (pag. 59).

Un collage all’ennesima potenza, uno stiramento della mente e della visione: il processo di mise en abîme letteralmente “messa nell’abisso”, è forse uno dei momenti più grandi di meraviglia visiva, quando ci si colloca tra due specchi e si vede la propria immagine che si moltiplica all’infinito, dando forma a un abisso, appunto.

Le foto di questi mini-set squarciano il tempo, catapultandoci negli abissi esistenziali di menti che non esistono più, di attimi svaniti, rubati al flusso del tempo creativo in una vertigine che rende presente e tangibile ciò che è irrimediabilmente perduto, il pasto nudo, in cui il continuum spazio-temporale va in corto circuito e la mente può vedere con infinita chiarezza un istante che dura per sempre. 

Fine della prima parte

Immagine in cover: William Burroughs a Tangeri ritratto dall’amico e collaboratore Brion Gysin all’interno di un cantiere vietato al pubblico, nel quale non si può né sostare né fumare.
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Categories: Arte