Il 21 marzo la Commissione europea presenterà la bozza della nuova web tax europea. Il testo prevede d’imporre alle multinazionali digitali un prelievo pari al 5% del fatturato generato nei Paesi dell’Unione. Il progetto è chiaro, ma la sua realizzabilità è ancora da dimostrare: per entrare in vigore, infatti, la tassa dovrebbe ottenere il via libera di tutti i governi Ue. Ed è prevedibile che diversi Paesi si metteranno di traverso: su tutti l’Irlanda, vero e proprio paradiso fiscale per i colossi della Silicon Valley, ma anche Olanda e Lussemburgo, che prosperano grazie a forme di dumping fiscale in altri settori. Stesso discorso per Malta e Cipro.
Lo scorso autunno i governi di Italia, Francia, Germania e Spagna avevano chiesto ai partner e a Bruxelles di introdurre una web tax europea. Prima di Natale il fronte si era allargato a una ventina di governi, ma l’unanimità è rimasta una chimera. Per questo la discussione tra governi si era arenata ed era stato chiesto al Bruxelles di andare avanti con un testo per poi provare a piegare le resistenze di Dublino e soci.
E così la Commissione presenterà la sua proposta. Nelle intenzioni dell’Esecutivo comunitario, peraltro, la web tax europea non dovrebbe essere altro che una soluzione transitoria in vista di un accordo globale a livello Ocse (ancora più improbabile). Nell’attesa, l’Ue mette sul tavolo il primo 5%.
Ad oggi i colossi del web spostano in modo virtuale e fittizio gli utili imponibili nei paesi dove sono tassati pochissimo. I codici internazionali del fisco prevedono che una multinazionale debba pagare le tasse sui profitti in un paese dove fa affari ed opera se ha in quel paese una “stabile organizzazione”, cioè un certo numero di dipendenti, una organizzazione commerciale, degli uffici o linee di produzione. Altrimenti può continuarle a pagare nella propria sede legale e fiscale che, solitamente, è collocata in Irlanda, Olanda o in Lussemburgo, dove le aliquote sono meno della metà che da noi.
Per questo Bruxelles con una direttiva introduce il principio del Digital permanent establishment, una sorta di residenza digitale grazie alla quale pagheranno la web tax europea le aziende con un reddito superiore ai 10 milioni di euro in un paese Ue e con un numero superiore a una soglia (ancora da stabilire) di utenti e di contratti online.
La web tax europea colpirà le attività in cui l’asimmetria tra tassazione dei profitti e creazione del valore aggiunto è particolarmente significativa, cioè le aziende che monetizzano i dati degli utenti (Facebook, Google, Twitter, Instagram) e quelle che mettono in contatto consumatori ed erogatori di servizi (Airbnb o Uber).
Perché venga applicata la web tax, inoltre, l’azienda deve avere un reddito globale annuo superiore ai 750 milioni di euro e ricavi in Europa superiori ai 10/20 milioni (la cifra è ancora in discussione).