E trenta. Continua stamane a Francoforte l’inferno dei titoli Volkswagen. Il nuovo calo porta a 30 miliardi la perdita di capitalizzazione del gigante di Wolfsburg da inizio settimana. Ma, a detta degli analisti di Deutsche Bank, non è arrivato il momento di comprare. Tutt’altro. Anche perché, spiega un report della Banca, i precedenti non fanno ben sperare. “Il precedente di Audi nel 1987, quando la casa venne chiamata a rispondere in Usa per incidenti legati al sistema frenante dimostrano che ci vogliono almeno dieci anni per recuperare la fiducia in quel mercato”.
Il crash di Vw, intanto, ha consigliato a Db di abbassare le previsioni sull’indice Dax: a fine anno Francoforte chiuderà a quota 10.300, non più a 11.200 secondo le previsioni della Banca, che pure paiono ottimistiche visto che l’indice è in caduta a 9.571 punti.
I numeri della Borsa danno un’idea dello shock che ha investito la corporate Germany. “Bisogna fare chiarezza subito”, ha dichiarato Angela Merkel, più attonita che irata, intervenendo così sullo scandalo che ha ormai assunto l’aspetto di una vera e propria catastrofe politica, con un forte impatto negativo sull’immagine della Germania. Oltre che, naturalmente, per il colosso di Wolfsburg con i suoi 600 mila dipendenti che ieri ha concesso in Borsa il bis della Caduta degli Dei: -17,2% dopo il -19% di lunedì. In soli due giorni sono andati in fumo 25 miliardi di euro, pari a due volte l’intero gruppo Fiat Chrysler.
Ma ieri le vendite non hanno risparmiato nessuno, compreso il gruppo italo-americano che chiude a -6%, meglio di Bmw (-6,3%), Mercedes (-7%) e Peugeot (-8%). A dimostrazione che le conseguenze dello scandalo delle emissioni “truccate” si rivelano disastrose un po’ per tutto il settore auto, il principale motore degli investimenti e della crescita del Vecchio Continente.
I numeri fanno paura. Un comunicato della stessa Volkswagen ha rivelato che nel mondo ci sono 11 milioni di vetture diesel del gruppo equipaggiate con il congegno Tib EA 189 che permette, in caso di verifica da parte delle autorità, di abbassare di 40 volte la quantità dei veleni rilasciati nell’aria. Basta questo numero per dimostrare che il congegno incriminato non è stato usato solo negli Stati Uniti ove tra l’altro le norme ambientali sono meno severe che in Europa. Facile, al contrario, dedurre che il “dispositivo di elusione” è stato usato su larga scala in Europa, dove il diesel è più diffuso (mentre è quasi sconosciuto in Cina).
Immediata è stata la reazione in tutto il mondo. Il ministro delle Finanze francese Michel Sapin ha invocato un’inchiesta a livello europeo, una richiesta che assume un forte significato politico: finora la lobby dei costruttori tedeschi ha fortemente condizionato le regole Ue in materia di emissioni, a danno di francesi ed italiani, che vantano motori più “puliti”. Si è mossa anche l’Italia: il ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti ha chiesto “riscontri oggettivi” al gruppo e all’ente regolatore tedesco. Altrimenti? “Qualora necessario l’azienda dovrà assumere analoghe iniziative a quelle già intraprese per il mercato americano anche a tutela dei consumatori italiani”. Non meno forti le iniziative prese da Corea del Sud ed Australia. Oltre, ovviamente, da Berlino.
I costi immediati per l’azienda di Wolfsburg sono enormi. La stessa casa ha annunciato si aver accantonato 6,5 miliardi di euro per sistemare le vetture incriminate. Una cifra sufficiente a dimezzare gli utili del gruppo (12,7 miliardi nel 2014). Ma è evidente che si tratta di un dato provvisorio: sull’azienda pende la minaccia di una multa di 18 miliardi di dollari. Intanto già scattano le inchieste penali in Usa e nella madre patria. Il procuratore di Brunswick Klaus Ziehe, competente per Vw, ha anticipato a Die Handelsblatt una mossa in tal senso”.
“Chiariremo tutto il prima possibile”, ha detto il ceo Martin Winterkorn. Ma non è affatto detto che tocchi a lui guidare l’operazione pulizia. Winterkorn, uno dei tecnici più esperti dell’auto, si è sempre vantato di conoscere ogni singolo particolare delle sue “creature”. E’ poco credibile che si sia fatto sfuggire il software malandrino, frutto di precise scelte industriali. Sembra assai probabile a questo punto il ribaltone ai vertici del gruppo.
Il successore, secondo Tagesspiegel, è già stato individuato: Matthias Mueller di Porsche. “E’ semplicemente ridicolo”, ribattono da Wolfsburg in attesa del board di venerdì convocato da tempo, per ironia della sorte, per allungare al 2018 il mandato di amministratore delegato, già vincitore della sfida con Ferdinand Piech. Ma è assai facile che herr Winterkorn, uno degli uomini più potenti di Germania, dovrà cedere il passo. Così si è già pronunciato Olav Lies, che rappresenta nel cda il Land della Sassonia, grande azionista del gruppo.
Com’era inevitabile, fiorisce il sospetto del complotto. Tra le possibili piste, la vendetta di Piech, anche se è poco credibile che uno dei maggiori rappresentanti della famiglia che discende da Ferdinand Porsche abbia compiuto un tale gesto. La sensazione generale, però, è che la pratica di truccare i dati sulle emissioni a tutto vantaggio delle prestazioni (e dei minori costi) non sia un’esclusiva di Wolfsburg. Nel mirino, a giudicare dalla Borsa, sono un po’ tutti i costruttori. Anche se Fiat Chrysler tiene a stare fuori dalla mischia. “Le nostre auto – si legge in un comunicato di Fiat Usa – non sono dotati di dispositivi simili”. La casa ha fatto sapere che sta lavorando in modo ravvicinato con l’Epa e la California Air Resources Board per “assicurare che le sue vetture siano in regola con tutti i requisiti riguardanti le emissioni inquinanti”.
E’ comunque difficile valutare oggi i danni dello scandalo, che saranno epocali. Per la Germania, innanzitutto. Non sarà facile per Angela Merkel impartire nuove lezioni di etica ai partner. Per l’auto tedesca, già sinonimo di qualità. In generale per il mondo a quattro ruote che si ritrova alla sbarra proprio in un momento di grandi sforzi tecnologici tesi ad avvalorare investimenti per un futuro più “verde”. La perdita di credibilità si farà sentire. Come dimostra l’assordante silenzio dei Big, nei giorni di chiusura del salone di Francoforte, la festa più triste nella storia del Reich a quattro ruote.