Nello scandalo del dieselgate della Volkswagen, che ora si allarga anche ai motori dei brand di gamma alta del Gruppo tedesco, continuano a rimbombare gli assordanti silenzi del più potente sindacato d’Europa, l’IG Metall tedesca, e del professore dell’etica dei numeri, il Ministro delle Finanze tedesco Schauble.
Se Schauble, anziché fare il mastino con i greci, accusati di aver falsificato i dati dei bilanci statali, avesse operato con i colleghi del suo Governo, per far rientrare il saldo positivo della bilancia commerciale tedesca entro il parametro di Maastricht del 6%, da anni sfondato dalla Germania, molto probabilmente la VW non avrebbe coltivato il ricorrente sogno di una “Deutschland uber alles”, giocando con i “dadi” truccati per diventare il leader mondiale dell’auto.
Un qualche sospetto che della questione del dieselgate fossero a conoscenza non solo i tre o quattro ingegneri oggi primi annunciati capri espiatori della vicenda, nasce dalle attività lobbistiche che i rappresentanti tedeschi hanno effettuato negli anni passati nella Commissione Europea per fissare gli attuali limiti delle emissioni di CO2, favorendo, certamente “inconsapevolmente”, una grande azienda domestica, che con poche migliaia di euro si era dotata di un software “truffaldino”.
Non a caso il governo tedesco negli anni ante crisi, 2005-2008, ha osteggiato, agendo sull’imposizione fiscale, lo sviluppo sul proprio mercato delle auto “pulite” a metano e GPL, non avendo al tempo i carmakers tedeschi scommesso su queste motorizzazioni, a differenza delle altre case europee come, in primis, la Fiat.
Ma il silenzio più inquietante è quello del sindacato, al di là di qualche presa di posizione “cerchiobottista” riscontrabile sui siti dell’IG Metall di Berlino o di Wolfsburg: la colpa è circoscritta a qualche manager all’insaputa degli organismi di governance, il sindacato è rimasto sorpreso e ripone fiducia nel nuovo management, ci saranno ovviamente dei costi da pagare per ritornare alla normalità purché non ci rimettano i lavoratori (e i 6000 contrattisti precari che, nonostante le smentite, rischiano di andare a casa?).
Quello che non è credibile è proprio che delle centraline truccate fossero a conoscenza solo tre o quattro manager, per di più a livello apicale: basta avere un minimo di conoscenza di come funziona non una fabbrica automobilistica di 70.000 persone quale quella di Wolfsburg, ma una semplice officina per sapere che il maggior conoscitore del funzionamento di un motore è proprio la persona che si sporca le mani sul motore stesso.
In un’azienda come la VW, in cui la presenza del sindacato è pervasiva non solo negli organi societari ma anche tra i lavoratori, con i propri rappresentanti, negli uffici tecnici e informatici, nei laboratori di ricerca, nelle sale prove motori, nel collaudo di qualità, nelle prove su pista e strada, come si può pensare che solo pochi manager fossero a conoscenza del software “segreto” della centralina elettronica?
Com’è possibile che nessuno sapesse che su oltre 11 milioni di vetture (poco meno della metà di quelle prodotte a Mirafiori dalla sua nascita nel 1939 a oggi) è stato montato un dispositivo finalizzato a falsare i dati dei test sulle emissioni?
Il fatto non è e non era credibile sin dall’ inizio dello scandalo: non è un caso che oggi, come riportato da alcuni organi di stampa tedeschi, la VW, visto l’ impasse dell’ audit interno sui processi organizzativi e decisionali del dieselgate, stia pensando ad una “amnistia” per i dipendenti di qualsiasi livello, esclusi ovviamente i top manager, che hanno partecipato alla frode e siano disponibili a pentirsi: chi sa parli e gli sarà garantito il posto di lavoro e l’esenzione dalle richieste di risarcimento danni!
Anche alla cancelliera Angela Merkel qualche dubbio deve essere venuto, se ora, sul suo sito, chiede alla VW di agire in modo trasparente e di cambiare la sua struttura aziendale e di governance (quasi a dire: vi (ci) hanno scoperti correte ai ripari!). Quello che oggi dobbiamo però chiederci è se l’inganno a milioni di clienti, la totale mancanza di procedure di controllo interno, il silenzio complice per ignoranza o prossimità del sindacato, rischiano di sfatare il mito della “cogestione alla tedesca”, così spesso citata ed esaltata dai “trombettieri” nostrani proprio con riferimento al modello Volkswagen.
Su “indicazione” degli Stati Uniti la cogestione fu introdotta in Germania nel 1951 nel settore del carbone e dell’acciaio e poi, con il German Works Constitution Act del 1952, estesa alle aziende di tutti i settori con oltre 500 dipendenti (già allora, ma per ragioni diverse rispetto al Jobs Act, si usava la lingua inglese in una legislazione nazionale).
Gli americani infatti propugnavano, per contenere un eventuale nuovo espansionismo tedesco in piena guerra fredda, una reindustrializzazione della Germania contemperata dal controllo dei lavoratori e del loro sindacato, anche se su posizioni marxiste perlomeno sino alla svolta socialdemocratica di Bad Godesberg del 1959.
Con la successiva legge sulla cogestione del 1976 (Mitbestimmungsgesetz) vengono rafforzati ed estesi i Consigli di Azienda (Betriebsraete) eletti direttamente dai lavoratori e aventi reali poteri in tema di politiche aziendali e gestione della forza lavoro: fra i principali oggetti di cogestione figurano i piani sociali, gli orari di lavoro, la formazione e i metodi di valutazione del personale.
La presenza dei rappresentanti dei lavoratori si colloca anche, in modo paritario, al livello aziendale più alto, il Consiglio di Sorveglianza (Aufsichtsrat), istituzione con compiti d’indirizzo analoghi a quelli dei nostri Consigli di Amministrazione, mentre i compiti esecutivi veri e propri sono di competenza del Consiglio Esecutivo (Vorstand) che esprime l’amministratore delegato.
Peraltro le nomine dell’amministratore delegato e del direttore del personale devono essere approvate dal Consiglio di sorveglianza, e quindi dal sindacato: è come se, in Italia, i vertici della FCA fossero nominati con il consenso della Camusso e di Landini.
La cogestione alla tedesca, che accomuna nella gestione il management con i rappresentanti dei lavoratori, ha favorito indubbiamente lo spirito di cooperazione tra azienda e lavoratori, permettendo di affrontare nel migliore dei modi i periodi di crisi, di evitare la conflittualità sindacale esacerbata e di ottenere livelli salariali superiori alla media europea.
Peraltro questo modello di forte interconnessione tra management, sindacato e rappresentanti dei lavoratori, che ha in VW proprio il suo archetipo, rischia oggi di ripercuotersi negativamente sui lavoratori stessi con i possibili tagli occupazionali, pur se a oggi smentiti, e una grave crisi aziendale economico-finanziaria.
Quello che è necessario chiedersi è cosa ha spinto il sindacato e i suoi rappresentanti (che non potevano non sapere, vista la loro radicata presenza non solo ai massimi livelli ma anche sui posti di lavoro) a non sollevare per anni (le produzioni “incriminate” sono quelle risalenti dal 2007 a oggi) la questione presso gli organi societari in cui sono largamente presenti.
Molto probabilmente la risposta sta nel modello stesso della cogestione tedesca: il potere significativo nella gestione aziendale dato ai lavoratori e al loro sindacato ha fatto prevalere l’interesse specifico dei manager e dei lavoratori, non riuscendo o volendo contemperare i loro interessi con quelli di altri stakeholders quali i clienti, i finanziatori e la comunità.
Nel caso della VW l’interesse dell’azienda, dei suoi azionisti (pubblici e privati) e dei suoi lavoratori, è stato quindi giudicato superiore all’interesse dei clienti, della salute della popolazione, del rispetto della normativa in materia di emissioni di gas.
Nei paesi europei le imprese sono organizzazioni vitali per il sistema economico, elementi chiave della società civile, a condizione che si dotino di un sistema di governance e di responsabilità sociale ed etica che riconosca non solo il ruolo interno che compete agli azionisti, ai manager e ai lavoratori, ma presti attenzione anche alle parti esterne rappresentate dai clienti, dai fornitori di filiera, dalle comunità locali, dalle associazioni ambientaliste, e così via.
In questo modo si potranno evitare le derive come quelle della VW (per non parlare di ILVA) e il paradosso che, per la terza volta in un secolo, siano dovuti intervenire gli Stati Uniti a fermare il tentativo egemonico tedesco. Questa volta, fortunatamente, solo economico.