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“Via della Seta ok, ma l’Italia passi all’incasso”: parla Noci (Polimi)

Imagoeconomica

“L’accordo con la Cina per la Via della Seta è un fatto positivo, ma per dare un senso all’operazione adesso bisogna assolutamente passare all’incasso”. Come si passa all’incasso lo spiega a FIRSTonline Giuliano Noci, prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano e tra i massimi esperti delle relazioni Italia Cina, che innanzitutto riconosce i meriti anche ai precedenti governi (“L’operazione incubava da diversi anni, non è stata una novità di questo Governo”) e poi bacchetta la reazione dei partner europei: “Macron pochi giorni dopo ha accolto anche lui in pompa magna il presidente cinese Xi Jinping, firmando un accordo ancora più consistente per gli Airbus: dal suo punto di vista ha fatto bene, ma dopo aver predicato bene, i fatti hanno detto un’altra cosa. E’ evidente che Francia e Germania vogliono conservare il loro vantaggio sul mercato cinese, ma ci vuole una posizione unitaria. Detto questo, anche noi potevamo fare di più e gestire meglio la comunicazione…”.

Professore, mentre il presidente francese ha portato a casa 30 miliardi per gli Airbus, il nostro Memorandum of understanding alla fine ne vale solo 7 per le nostre imprese. Come giudica l’intesa raggiunta con Xi Jinping?

“Si poteva sicuramente fare di più. L’accordo, così come è, al momento riconosce soprattutto un successo politico alla Cina, che diventa così partner di un Paese occidentale membro del G7. Per noi doveva e deve essere un’opportunità per recuperare lo svantaggio che abbiamo nei rapporti commerciali con la Cina. Al momento però questo aspetto manca, bisogna ancora dare un senso compiuto all’operazione”.

Che cosa intende?

“Che il Governo, nelle prossime settimane, deve finalizzare l’accordo di massima, deve esplicitare bene il quadro delle business opportunity per le nostre aziende. Bisogna portare a casa alcuni risultati concreti, come per esempio una strategia di business congiunto con Pechino nei porti di Trieste e Genova, per evitare di finire come la Grecia con il Pireo, la cui società di gestione è controllata al 100% dalla Cina. Sarebbero invece più auspicabili delle joint venture, con l’obiettivo di intensificare le rotte commerciali verso l’Asia. Non solo: alcuni settori della nostra industria, in particolare agroalimentare, chimico e farmaceutico, hanno ancora difficoltà ad accedere al mercato cinese, e bisogna ridurre questo svantaggio. Infine, con la Cina potremmo anche individuare dei Paesi, sia in Asia che in Africa, in cui fare business insieme”.

Perché anche in Africa?

“Può essere un’area strategica perché la Cina come è noto ha da anni messo le mani su quel continente, ma adesso potrebbe aver bisogno di diluire la propria presenza, per non essere accusata di colonialismo. Quale miglior partner dell’Italia, che in Africa vanta una presenza storica e consolidata, soprattutto attraverso le attività di una importante società come Eni? Perché l’operazione della Via della Seta abbia un senso, per il nostro sistema economico devono essere definite reali opportunità industriali”.

Secondo lei il Governo è consapevole di questa necessità, o tenderà ad accontentarsi della firma simbolica?

“Non glielo so dire, vedremo nelle prossime settimane. Ma farebbe un gravissimo errore ad accontentarsi”.

Intanto i nostri partner europei, Francia e Germania in primis, si sono arrabbiati.

“Sicuramente potevamo gestire meglio la comunicazione, ma è anche vero che l’atteggiamento di Parigi e Berlino è sbagliato, perché tende a voler tutelare il vantaggio che soprattutto la Germania ha nei rapporti con la Cina. La Germania è l’unico Paese europeo con un saldo commerciale positivo nei confronti di Pechino. L’Italia, che al netto dei beni energetici è il quinto Paese al mondo e il primo in Europa per surplus commerciale generale, con la Cina ce lo ha negativo. In alcuni settori esportiamo di più in Svizzera, un Paese di 8 milioni di abitanti, che in Cina, che di abitanti ne ha 1,3 miliardi e dove fino a pochi anni fa nemmeno toccavamo palla, per dirla in gergo calcistico. Questo è stato un nostro errore, senza dubbio, ma l’Europa bacchettandoci si contraddice: solo un anno fa, la Commissione ha varato l’EU-China Connectivity Platform, un piano d’azione a breve termine per favorire i rapporti di tutti i Paesi membri con la Cina”.

Forse però l’errore è stato di andare avanti da soli, rischiando di isolarci.

“No, non sono d’accordo sul discorso dell’isolamento. L’Italia ha sbagliato la comunicazione ma ha tutto il diritto di colmare il gap nelle relazioni con la Cina. Francia e Germania hanno lavorato meglio in passato e ora vogliono che le cose restino il più possibile come sono, per difendere la loro posizione e lasciare indietro altri Paesi come l’Italia. Ma allora perché firmare quel documento l’anno scorso? Un conto sarebbe stato di dire ‘non vogliamo interazioni con Pechino’, un altro è criticare l’Italia e dopo pochi giorni ricevere Xi e firmare altri accordi. L’errore casomai è che i singoli Stati facciano tutto da soli, ci vorrebbe una linea unitaria europea. Ma linea unitaria non deve significare difendere gli interessi di Francia e Germania: deve andare a vantaggio di tutti, anche dell’Italia”.

Noi però, come diceva Lei prima, in Cina fino a qualche tempo fa non toccavamo nemmeno palla. Non è che ci siamo svegliati troppo tardi?

“Sicuramente sì, rispetto ai nostri competitor siamo rimasti tagliati fuori perché negli anni tra il 2000 e il 2012, nel pieno del boom cinese, non ci siamo organizzati. Pechino è entrata nella nostra orbita soltanto nel 2012 con il governo Monti e poi con quelli successivi. L’operazione della Via della Seta infatti non è un ‘colpo’ di questo Governo, ma era in cantiere da anni, era stata ‘apparecchiata’ già dai governi precedenti: nel 2017 l’allora premier Paolo Gentiloni fu l’unico capo di governo di un Paese del G7 a partecipare al Forum Belt&Road presieduto da Xi Jinping a Pechino”.

Per quali motivi l’Italia si è mossa così in ritardo sul fronte asiatico?

“Per diversi fattori. Un po’ per le dimensioni delle nostre imprese, che sono per lo più medio-piccole e dunque meno attrezzate per aggredire un mercato come quello cinese; un po’ perché le nostre aree di influenza storiche sono più orientate all’Atlantico o all’Africa e al Medio Oriente. Ma soprattutto per una assenza di visione politica. Come dicevo prima, in alcuni settori esportiamo di più in Paesi come la Svizzera che in Cina: se non altro considerando il fattore demografico, abbiamo decisamente sbagliato strategia”.

I rapporti tra Europa e Cina tuttavia non riguardano solo gli aspetti industriali e commerciali. C’è anche la grande partita delle infrastrutture tecnologiche, con una società cinese, Huawei, finita nell’occhio del ciclone ma che – nonostante le pressioni Usa – potrà partecipare all’installazione della rete 5G in Europa, fatta salva la possibilità dei singoli Paesi di escluderla in caso di rischi per la sicurezza. Che cosa ne pensa e come dovrebbe muoversi l’Italia?

“Intanto, il 5G è un’infrastruttura chiave, che rivoluzionerà il mondo nei prossimi anni. L’Italia è – come altri Paesi – in una fase sperimentale, con Milano capofila di un progetto al quale partecipa anche il Politecnico di Milano e che ha come partner tecnico proprio Huawei. Purtroppo, vendendo negli anni ’90 realtà come Italtel ed Elettra, abbiamo rinunciato alla possibilità di avere un ruolo attivo nelle tlc e abbiamo dunque la necessità di ricorrere ad operatori stranieri. Che siano statunitensi, del Nord Europa o cinesi, poco importa: il tema è quello di garantire la massima sicurezza di una infrastruttura strategica. Per questo, secondo me, serve istituire al più presto un’Authority ad hoc che monitori e certifichi gli apparati, un po’ sulla falsariga di quanto sta facendo il Regno Unito. Se Huawei avrà un ruolo centrale in Italia non so dirlo, ma sicuramente ad oggi la leadership sulle nuove tecnologie a livello globale è detenuta dalla tlc cinese”.

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Categories: Politica