Inizia col botto il Forum Brics di Johannesburg, alla presenza di tutti i leader degli ormai ex Paesi emergenti, ad eccezione del presidente russo Vladimir Putin che ha mandato Sergej Lavrov, ma con la partecipazione in compenso di molti ospiti “sospetti”, ovvero Paesi africani e non solo, diciamo Stati del “Sud del mondo”, pronti ad essere integrati nel consesso su forte pressione di Cina e Russia, col chiaro obiettivo di creare un nuovo asse globale da contrapporre all’Occidente e al G7.
Brics: come è composto e chi si vorrebbe far entrare
In questi giorni in Sudafrica si discute infatti dell’adesione alla sigla Brics, che ad oggi comprende Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, di altri Paesi strategici per vari motivi: Egitto e Etiopia per dare maggiore peso all’Africa, Arabia Saudita e Emirati Arabi per includere l’area mediorientale, sempre più ricca e influente, Iran e Cuba per ovvi motivi di schieramento geopolitico, il tutto mentre il presidente americano Joe Biden ha appena rafforzato la presenza Usa nell’area Asia-Pacifico firmando un accordo con Giappone e Corea del Sud, e a settembre chiuderà un agreement anche con il Vietnam.
La proposta di Lula: Argentina e Brasile potrebbero usare lo yuan
A questo risiko da nuova Guerra Fredda partecipa anche l’Argentina, anch’essa tra i Paesi candidati ad entrare nei Brics in questo caso per volontà del vicino Brasile: i due Paesi sudamericani hanno una storica e forte partnership commerciale, oltre che un legame sempre più intenso con la Cina, verso la quale esportano entrambi materie prime, soprattutto soia. Proprio a questo proposito il presidente brasiliano Lula ha lanciato la prima bomba attraverso il suo canale podcast: “Stiamo valutando di usare come moneta negli scambi con Buenos Aires lo yuan invece che il dollaro”.
Il motivo è chiaro: dopo i tentativi falliti di creare una valuta comune ed esclusiva per gli scambi tra i due Paesi, Lula vorrebbe dare una mano all’Argentina (ancora per poco governata dall’amico Alberto Fernandez) e soprattutto tutelare le imprese esportatrici brasiliane sostituendo il dollaro, che a Buenos Aires è sempre più costoso e inaccessibile, con la moneta di Pechino, che peraltro molte imprese argentine già stanno usando per farsi pagare i prodotti esportati e soprattutto per pagare le importazioni.
Ma l’Argentina, stretta tra dollaro ai picchi e l’arrivo delle elezioni, predica la dollarizzazione
Il summit di Johannesburg e l’ultima trovata di Lula arrivano peraltro nel bel mezzo di una crisi, quella argentina, non solo finanziaria, col dollaro al massimo storico e l’inflazione ormai abbondantemente sopra il 100% su base annua, ma anche politica, con le recenti elezioni primarie (che in Argentina sono obbligatorie e dunque molto partecipate) che hanno visto l’affermazione a sorpresa del candidato di estrema destra Javier Milei, che ora corre da favorito per le presidenziali del 22 ottobre. E che invece predica la dollarizzazione totale dell’economia, rifiutando qualsiasi tipo di rapporto privilegiato con Pechino, a differenza di quanto sperano il Brasile e gli altri Brics.