Veronica Franco (comunemente chiamata, secondo l’uso del tempo, con declinazione al femminile del cognome: Franca), si presentò sulle scene della vita con il dono di una rara naturalezza. A noi giunge in tutta la sua bellezza raffigurata nelle tele da Tintoretto: viso rotondo, occhi scuri e una chioma bionda intrecciata intorno al capo, avvolta in abiti sontuosi del periodo come era in uso durante il Rinascimento. Da notare che furono proprio le donne di Venezia ad influenzare la moda in tutta Europa.
Nata 1546 da una famiglia che, sebbene non fosse patrizia, poteva vantarsi dell’appartenenza alla cittadinanza veneziana della Serenissima. In quel periodo Venezia godeva di magnificenza e di stimoli culturali provenienti da ogni parte del mondo ed era popolata da circa 150.000 abitanti: teatri, stamperie in calli, campielli in una brulicante socialità.
Tuttavia, in questa cornice di splendore così tanto intenso da apparire irreale, la libertà concessa alle donne era limitata e soggetta alla supremazia maschile. Mentre, le donne sposate trovavano una maggiore garanzia (almeno formale) di tutela nella legittimità del loro status. Mentre le cortigiane chiamate “honorate” per distinguerle dalle meretrici, si muovevano tra lusinghe e disprezzo, accettazione e ripudio.
Veronica, tra il 1560 e il 1562, parve abbracciare la liceità della condizione di moglie andando in sposa ad un medico di nome Paolo Panizza, ma il matrimonio si concluse molto presto. Fu sua madre ad avviarla alla professione di Cortigiana Honesta, che lei stessa ha esercitato in gioventù e nonostante la concorrenza piuttosto presente (la tariffa del periodo si aggirava a due scudi a prestazione) decise di scegliere comunque di diventare cortigiana veneziana. (Il termine cortigiana indica il corrispettivo cinquecentesco dell’etera greca, ossia una donna colta, raffinata ed elegante, capace di accompagnarsi a uomini nobili, ma ricompensata per i suoi servigi, anche erotici. Non a caso, se il gentiluomo ideale delle corti viene tranquillamente definito cortigiano da Baldassarre Castiglione nell’omonimo trattato, la dama è detta invece “donna di palazzo” e non cortigiana, così da evitare spiacevoli equivoci.)
Veronica però non si adeguò facilmente alla scelta della madre ma non potè fare diversamente. Comunque stessero le cose, quella carriera le consentiva di entrare a far parte di un mondo ricco di stimoli culturali, dove avrà modo di conoscere personaggi importanti, fondamentali per il suo ruolo di poetessa. Come Domenico Venier, illustre poeta, anima del circolo culturale “Ca’ Venier”, e protettore di Veronica, che gli chiede di revisionare le sue poesie. Veronica diventa famosa a Venezia non solo per la sua bellezza, ma anche per le sue doti artistiche: sa suonare, danzare e cantare, e poi ci sono i suoi “versi”. Lei è sì “scrittora” (come la definisce Dacia Maraini), ma rimane comunque una meretrice.
Trasferitasi in un palazzo in Santa Maria Formosa, Veronica Franco fece della sua casa un luogo di cultura dove invitava musicisti, pittori e nobili. E dove gli ospiti oltre a godere dei piaceri terreni, venivano allietati anche da letture, musiche e discussioni filosofiche.
Veronica ebbe una lunga lista di amanti veneziani ma anche stranieri e che le diedero ben sei figli
Lo stesso Enrico di Valois, prossimo re di Francia, fu tra i suoi amanti in una sfarzosa Venezia. Veronica, per questa occasione, donò al sovrano una miniatura in smalto che la ritraeva e due sonetti da lei scritti, consacrandola così tra le cortigiane più desiderabili d’Europa.
Nel 500 nella città lagunare i rapporti omosessuali erano piuttosto in voga e perciò per cercare di combattere questa tendenza, le prostitute diventarono una sorta di incentivo per “distogliere gli uomini dal peccare contro natura”. Al riguardo, la Serenissima, a chi praticava la sodomia istituì l’impiccagione che veniva fatta in piazza di San Marco, e poi i corpi bruciati. Ma la prostituzione delle donne divenne anche fonte di ricchezza senza pari per la Repubblica, che regolamentava e controllava l’attività e soprattutto riscuoteva le tasse sui profitti.
Nel 1575, periodo infausto per la Serenissima a causa della peste, Veronica si dedicò prevalentemente alle sue future pubblicazioni: le Terzerime a cui si deve accostare la silloge Rimedi diversi eccellentissimi autori nella morte dell’Illustre Sign. Estor Martinengo Conte di Malpaga. Inoltre era la curatrice della raccolta in memoria del giovane patrizio bresciano, con ventisei sonetti di autori legati alla cerchia di Veronica, tra cui gli immancabili Domenico e Marco Venier, Bartolomeo Zacco, Celio Magno. Mentre le Lettere vennero stampate più tardi, ed esattamente nel 1580.
Cosí dolce e gustevole divento,
quando mi trovo con persona in letto,
da cui amata e gradita mi sento,
che quel mio piacer vince ogni diletto,
sí che quel, che strettissimo parea,
nodo de l’altrui amor divien piú stretto.
Febo, che serve a l’amorosa dea,
e in dolce guiderdon da lei ottiene quel che via piú che l’esser dio il bea,
a rivelar nel mio pensier ne viene quei modi che con lui Venere adopra,
mentre in soavi abbracciamenti il tiene;
ond’ io instrutta a questi so dar oprasí ben nel letto,
che d’Apollo a l’arte questa ne va d’assai spazio di sopra,
e ’l mio cantar e ’l mio scriver in carte s’oblía da chi mi prova in quella guisa,
ch’a’ suoi seguaci Venere comparte.
(vv. 154-171)
Ma Veronica, sebbene lo abbia esercitato con grazia e somma sapienza (e di questa maestria era conscia), non amava il suo mestiere. Donna dal carattere acceso, propensa ad assaporare i piaceri della sensualità, era tuttavia troppo lucida per dimenticare l’umiliazione che una cortigiana poteva subire a opera anche dell’accompagnatore più fedele.
Ritirata dalla professione, nonostante le difficoltà economiche che le rendeva la vita difficile – anche per il mantenimento dei sei figli – continuò comunque a dedicarsi allo scrivere. Lo stesso anno, fu accusata da Rodolfo Vannitelli di aver messo in atto pratiche di stregoneria e altre infrazioni contro le leggi della Chiesa e della città di Venezia.
Fu condannata ma uscì indenne dal processo grazie all’intervento di un suo protettore o presunto amante
Alla fine, stanca perché di ferite, Veronica ne subì tante, decise di convertirsi alla Chiesa e così espiare le sue dissolutezze. Si dedicò ad aiutare la sorte di fanciulle indigenti con figli e che desideravano una vita migliore, da qui l’appello al Doge per creare un ricovero per queste donne, che però non fu subito realizzato, dovette attendere alcuni anni per realizzato più tardi. Morì il 22 luglio 1591.
[Nel volto di Venezia, cangiante d’acque, Veronica scorge forse un riflesso del proprio volto, della sua luminosa seduzione; forse, di Venezia invidia la purezza, la fiera verginità. Guarda la sua patria, splendida e come sospesa, sul filo dell’acqua, tra realtà e illusione, rivede il suo stesso difficile equilibrio tra orgoglio e miseria, tra altezze e cadute…Veronica altro non era stata e non era se non un’incarnazione del medesimo incanto: come un guizzo sull’acqua, un’onda di laguna, lucente e leggera… libera, inafferrabile» (Francesca Favaro, voce Veronica Franco, in «Poesia.Speciale 25 anni. Vite di poeti», XXVI, 278, 2013, p. 58).]
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