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Venezia Palazzo Fortuny: Arte e vita di Luisa Casati

Palazzo Fortuny a Venezia – una delle città più amate da Luisa Casati Stampa, palcoscenico delle sue stravaganti esibizioni – è la sede della prima straordinaria mostra interamente dedicata alla “Divina Marchesa”, come la definì Gabriele D’Annunzio: la donna che a inizio Novecento, con il trucco esagerato, le trasgressive ed eccentriche performance e una vita sopra le righe, fu capace di trasformare se stessa in opera d’arte, leggenda vivente, conturbante e sorprendente rappresentazione di modernità e avanguardia.

La mostra resterà aperta fino all’8 marzo 2015 ed è ideata da Daniela Fereti, curata da Fabio Benzi e Gioia Mori e coprodota dalla Fondazione Musei Civici di Venezia e da 24 ORE Cultura – Gruppo 24 Ore, la caleidoscopica esposizione conta oltre un centinaio tra dipinti, sculture, gioielli, abiti, fotografie di grandi artisti del tempo, provenienti da musei e collezioni internazionali, riuniti in quella che fu la casa-atelier di Mariano Fortuny che con le sue ricercate sete e i famosi Delphos vestì – insieme a Paul Poiret, Ertè e Léon
Bakst – i sogni e le follie di Luisa Casati.

Tra le innumerevoli amanti di Gabriele D’Annunzio, fu l’unica che egli stimò veramente, ammaliato per anni dal fascino inimitabile di quella dona che il Vate – come tanti altri – citò e ricordò in numerose sue opere. Dinanzi al suo fascino e ai suoi favori s’inchinarono schiere di pittori, scultori, fotografi che la immortalarono: Alberto Martini, Augustus Edwin John, Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Kes van Dongen, il barone Adolph de Meyer, Cecil Beaton ma anche Romaine Broks, Ignacio Zuloaga, Jacob Epstein e Man Ray.Artisti che la mostra chiama a raccolta a ricordare la Corè dannunziana – dark lady decadente ma anche musa di surrealisti, fauvisti, dadaisti e futuristi – facendone convivere mito e storia, vita e arte.

La Casati, infatti, non fu solo bizzara ed eccesiva (dai pitoni veri al collo al nude look), spettacolare e trasformista, megalomane e narcisista: il percorso espositivo e gli inediti studi pubblicati nel catalogo (edito da 24 ORE Cultura) le restituiscono una dimensione più consapevolmente “artistica”, rintracciando la sua attività di collezionista e restituendo alle sue azioni e ai suoi mascheramenti una dimensione estetica che la rende un’antesignana dell’arte performativa e della body art.

In pochi anni Luisa trasformò il suo volto nell’icona della belle dame sans merci: disegnato da profonde ombre nere, con le pupille dilatate e rese lucenti dalla bella donna, le labbra dipinte di rosso scarlato, i capelli tinti di rosso.
Dilapidò la sua immensa fortuna in travestimenti mozzafiato e in feste spettacolari di cui fu ideatrice e principale interprete, in case allestite come musei e nell’acquisto di opere d’arte. Morì a Londra nel 1957 nella più triste indigenza.

Straordinaria è la collezione di lavori e ritratti, che le furono dedicati o che lei stessa commissionò, che in mostra rievocano di volta in volta una delle tre “dimensioni” – performer, icona della donna vamp e strega – riconosciutele da
Robert de Montesquieu nei suoi sonetti; così come l’adesione alla causa del futurismo e la passione quasi istintiva per la fotografia, arte capace di immortalare l’attimo e l’esibizione più azzardata, trasformando la realtà in leggenda.

È datato 1912 il ritratto della Casati che giunge dal Centre Pompidou firmato da Léon Bakst, il costumista dei Balets ruses, che da quello stesso anno creò per la marchesa scenografici abiti per le feste più mondane. Una passione per i mascheramenti che ritroviamo nel ritratto con piume di pavone di Boldini del 1911- 1913 (Roma, Gnam) e nelle due opere realizzate a grandezza naturale da Alberto Martini, provenienti da collezione francese, che ricordano le sue interpretazioni di Cesare Borgia (1925) e di un arciere selvaggio (1927).

La Divina aveva stregato anche l’artista veneto – reclutato, quasi fosse un rinascimentale “pittore di corte” – come dimostrano i carteggi svelati nell’occasione e il corposo nucleo di lavori di Martini in mostra, alcuni dei quali inediti: ritratti in gondola o con pantera datati 1919-20, ritratti metaforici come la serie dedicata alle farfalle notturne del 1912-15 o quello come Euterpe del 1931. Nel percorso vi è anche il Teatro: l’utopica scena martiniana che la marchesa avrebbe voluto realizare nel bacino di San Marco.

Le opere provenienti da collezioni inglesi e francesi di Alastair – il barone esteta amico di D’Annunzio – raccontano la dimensione di donna fatale, identificando la Casati con le immagini degli “idoli di perversità” allora di moda, da Messalina a
Salomè, elaborati tra il 1914 e il 1919.

Ma è l’aspetto più “gotico” della marchesa, la sua ossessione per l’occulto e le pratiche magiche, a emergere con forza in mostra: nel suo delicatissimo “doppio” in cera del 1908, eccezionale prestito del Vittoriale degli Italiani; nel ritratto di
Romaine Broks del 1920, di collezione privata francese, in cui la Casati compare come un notturno pipistrello; in quello da saba di Ignacio Zuloaga (1923) proveniente da Zumaia e nel dipinto di Beltrán Mases del ‘29 dalla Fondazione
Suñol di Barcelona, dove Luisa appare come una Eva felice di avvolgersi tra le spire del diabolico serpente.

La sua chioma fiammeggiante – quale autentica Musa – furoreggia nel dipinto del ‘19 di Augustus Edwin John prestato dall’Art Gallery di Toronto; Epstein nel busto di bronzo del ’18 la ritrae con capelli da Medusa; Paolo Troubetzkoy la consegna ai posteri in un gesso del 1910-15 e in un più tardo bronzo con uno dei suoi levrieri.
Immaginifici sono il ritratto di Kes van Dongen, realizzato a Venezia durante un soggiorno del 1921 e proveniente dal’Art Museum di Milwauke e la scultura in legno del’artista polaca Sarah Lipska del 1930 dai Musées de Poiters.
La mostra a Palazzo Fortuny si sviluppa negli ambienti della casa del’artista che Luisa era solita frequentare, in un percorso che si fa denso di rimandi, evocativo di luoghi, personaggi ed emozioni.

Il Vate – il cui rapporto con la Marchesa rivive nelle lettere inedite e nelle fotografie di De Meyer e Man Ray, rielaborate dalla stesa Casati e dedicate a D’Annunzio – è ricordato nei ritratti di Romaine Broks dai Musées de Poiters e di Astolfo De
Maria dalla Fondazione di Venezia; la città dei Dogi d’inizio Novecento rivive negli oli di Boldini; il conte Montesquieu – altro dandy di quegli anni la cui casa parigina fu acquistata dalla Casati – è presente grazie al bronzo di Troubetzkoy dal Musée d’Orsay, mentre Gilbert Clavel s’affaccia nel ritratto realizzato dal’amico Depero che, suo ospite ad Anacapri, incontrò la musa futurista proprio nell’isola dove la marchesa aveva affittato Villa San Michele, trasformandola nel suo ennesimo palcoscenico di trasgressione e stupore.”Occhi lenti di giaguaro che digerisce al sole la gabbia d’acciaio divorata” disse di lei Filippo Tommaso Marinetti nella dedica che fece inserire da Carà nel proprio ritratto da donare alla Casati nel 1915. Il bellissimo dipinto, presentato nel ‘12 alla prima mostra futurista, segna appunto una tappa importante del’avvicinamento ai futuristi, di cui la stupefacente signora – chiusa la relazione con D’Annunzio intorno al 1913 – divenne sostenitrice, collezionista, mentore.

I mascheramenti festaioli diventavano ora un “unico costume esistenziale, una messinscena quotidiana creativa e moderna”: dalla Farfalla crepuscolare di Martini la Casati si trasforma in “una chimera moderna e futurista”.
Dalla collezione di Laura Biagiotti arriva in mostra un consistente gruppo di opere di Giacomo Balla. Delle diverse sculture di Boccioni, originariamente in collezione Casati, è esposto a Venezia Dinamismo di un cavallo in corsa + case (1915) che, per un curioso gioco del destino, è oggi conservato in quella che fu la residenza veneziana della marchesa, il palazzo Venier dei Leoni poi comprato da Peggy Guggenheim. In mostra, anche una “sintesi plastica” di Rusolo del 1912, proveniente dal Musée de Grenoble, e un ritratto realizzato da Depero del 1917.
Il trasferimento a Parigi agli inizi degli anni Venti ne fece l’icona anche delle avanguardie.

La foto scattata da Man Ray nella quale gli occhi della Casati sfocano e diventano sei, per un errore nello sviluppo della pellicola, colpì molto la nobildonna. Quella foto, che il pubblico potrà vedere a Venezia, fece il giro del’Europa e divenne un’icona surrealista, contribuendo ad alimentare un mito che non cesserà neppure dopo la morte.
Un sogno che non si spegne, che ancora arde e ispira tantissimi artisti, attori, stilisti: pensiamo alla serie realizata da T.J. Wilcox nel 208, alle interpretazioni di Georgina Chapman e Tilda Swinton negli scatti di Peter Lindbergh e di Paolo Roversi, ai grandi artisti d’oggi chiamati a confrontarsi con il mito della Casati, come Ane-Karin Furunes, Filippo di Sambuy, Marco Agostineli e Francesco Vezoli che hanno realizato nuove opere per l’occasione, e infine alle memorabili collezioni a lei dedicate da John Galiano per Dior e da Karl Lagerfeld per Chanel. Anni di sperperi ridurano Luisa Amman Casati sul astrico, costreta a cedere ogni suo bene. Gli scatti “rubati” nel periodo londinese da Cecil Beaton – autore anche del ritratto di Marisa Berenson nelle vesti dela Casati, realizzato nel 1971 e prestato dalla National Gallery of Portrait di Londra – mostrano una donna ormai segnata dal tempo e dalle difficoltà, ma sempre artefice consapevole del proprio eterno immaginario.

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