La grande corsa è appena cominciata ma già si annuncia un impegno, a partire dalla logistica, al cui confronto lo sbarco dell’esercito alleato in Normandia fa la figura di una scampagnata. E non solo perché i numeri dei vaccini da distribuire sono impressionanti: Pfizer, la prima casa ad aver tagliato il traguardo, ha in programma di distribuire 100 milioni di dosi nel 2020, e 1.3 miliardi di dosi nel 2021 mentre, Moderna sostiene di poter distribuire 20 milioni di dosi nell’anno, e tra le 500 milioni e 1 miliardo di dosi nel 2021. Invece, AstraZeneca ha in programma di distribuire 22 milioni di dosi nella prima metà del 2021. E così via, perché alla sfida si sono già iscritti altri gruppi pharma: Sanofi, Curevac, Johnson&Johnson. Tutti a caccia di quello che promette di essere comunque un grande affare: l’operazione per scacciare dai nostri incubi il coronavirus un impatto positivo in termini di Pil globale attorno al 5,4%, addirittura del 6,2% per gli Stati Uniti.
Una parte dei protagonisti, vedi AstraZeneca e Johnson&Jonhson hanno anticipato che il loro vaccino sarà no profit per venire incontro alla parte del mondo più disagiato. Ma altri, a partire da Pfizer e dalla tedesca BioNTech di Magonza promossa da due scienziati di origine turca, hanno già fissato il prezzo per le due dosi richieste dalla terapia: 19,50 dollari, suscitandola protesta di Oxfam, l’associazione no profit. Secondo l’analista Geoffrey Porges, l’anno prossimo il vaccino genererà entrate per 3,5 miliardi da dividere tra i due partners che, a suo tempo, hanno rinunciato ai contributi pubblici in arrivo dagli Usa.
Il costo dei vaccini, del resto, rappresenterà solo una parte dei costi dell’operazione, che imporrà soluzioni costose e tecnologicamente avanzate in quanto a logistica. Non a caso sia Pfizer che Moderna si stanno dotando di aerei, camion e valigie-freezer per trasportare vaccini che dovranno tassativamente essere trasferiti rispettivamente a meno 80 gradi e meno 20 gradi. Pfizer sta lavorando per prenotare l’equivalente di 20 voli al giorno dagli spedizionieri FedEx, Ups e Dhl. La Ups sta realizzando a Saint Louis, negli Usa, un nuovo campus di magazzini freezer da aggiungere a quello già disponibile in Olanda.
Scesi dall’aereo, i vaccini viaggeranno in camion refrigeranti. Per raggiungere le destinazioni finali, la stessa Pfizer ha messo a punto speciali contenitori grandi come valigie (50 per 70 centimetri) capaci di mantenere i meno 80 per 10 giorni, con una capacità tra mille e 5mila dosi ciascuna. Ognuno è munito di gps e termometro per il monitoraggio. Se le fiale si dovessero riscaldare, si accenderebbe una luce rossa. Il contenuto andrebbe probabilmente buttato, come d’altra parte già avviene a circa il 15% dei vaccini per tutte le altre malattie distribuiti nel mondo. Non è difficile prevedere un grande lavoro e (grandi profitti) per le aziende, come Air Liquide, specializzate nel Grande Freddo.
C’è da chiedersi a questo punto se il vaccino sia destinato a rispondere alle speranze che ha generato oppure, se come è successo al prodotto cinese sperimentato in Brasile, sia ancor possibile uno stop in extremis. In realtà il vaccino annunciato lunedì è solo il primo di una pattuglia di novità che appariranno nel prossimo futuro. Ma, come nota il New York Times, questo vaccino, frutto di una sperimentazione condotta su 44 mila persone, ha il merito di aver sdoganato il processo più promettente, basato sul metodo del Rna messaggero che consiste nell’inoculare nel corpo un frammento di Rna artificiale. Entrato nelle nostre cellule, questo gene sintetico ordina loro di produrre la proteina spike, la punta della corona del coronavirus, che è capace di stimolare il sistema immunitario e generare una memoria. Un procedimento analogo a quello sviluppato da Moderna. Ma in questo caso, il problema non è tanto di arrivare primi, quanto di soddisfare la domanda mondiale in tempi relativamente modesti, una prima volta nella storia umana.