“Capisco la scelta della Ue di puntare su Pfizer, che in questa fase garantisce più dosi, un po’ meno quella della Danimarca di fare a meno di AstraZeneca. I vaccini sono tutti sicuri ed efficaci e più ne abbiamo a disposizione e meglio è per combattere il virus”. A fare chiarezza sulla Babele dei vaccini è Mariapia Abbracchio, farmacologa e Prorettore vicario dell’università Statale di Milano, per la quale è anche Prorettore con delega a strategie e politiche della ricerca. L’ateneo milanese è un’eccellenza nel campo: è stato certificato da Science come il primo in Europa e il quarto nel mondo per numero di studi pubblicati sul Covid, con riferimento al primo semestre del 2020, nel pieno dell’esplosione della pandemia: “Avevamo molte competenze già in casa. Ora tra le altre cose stiamo studiando proprio i casi di trombosi rara”. Dalla scuola (“Giusto riaprirla in sicurezza”) all’immunità di gregge (“Sarei sorpresa se la raggiungessimo prima del 2022”), fino alla disastrosa gestione della Lombardia, “che paga la scelta di un modello ospedale-centrico, a discapito del presidio territoriale”, ecco le risposte date dalla farmacologa a FIRSTonline.
Professoressa, dopo le limitazioni per il vaccino AstraZeneca e probabilmente anche Johnson&Johnson, stanno cambiando gli scenari per la vaccinazione. L’Italia ha deciso di ordinare solo Pfizer e Moderna dal 2022, la Ue ha siglato un nuovo accordo proprio con Pfizer, la Danimarca ha addirittura rinunciato definitivamente ad AstraZeneca. Ci aiuta a capire che cosa sta succedendo?
“Comprendo la decisione dell’Unione europea di orientarsi su Pfizer, anche perché in questa fase garantisce un maggior approvvigionamento. Capisco meno la scelta della Danimarca, mentre per quanto riguarda il nuovo piano dell’Italia capisco il motivo precauzionale, ma dobbiamo appunto ricordarci che è solo una precauzione. Come è stato già detto, i casi di trombosi sono rarissimi e probabilmente legati anche ad un fattore predisponente relativo ad una sotto-popolazione specifica. Adesso si parla di tutti gli under 60 e in particolare delle donne e va bene sospendere la somministrazione, ma in futuro saremo in grado di circoscrivere ancora di più le categorie potenzialmente a rischio, senza però togliere l’opportunità all’intera popolazione di vaccinarsi con farmaci ad adenovirus, come appunto AstraZeneca o Johnson&Johnson. Questi vaccini sono pienamente sicuri ed efficaci, come quelli a mRna, cioè Pfizer e Moderna. Anzi, vorrei aggiungere altro”.
Prego.
“Recenti studi hanno ad esempio dimostrato che nella popolazione over 60 vaccinata con AstraZeneca i casi di eventi trombotici sono ancora più rari rispetto a quelli riscontrati nelle persone non vaccinate della stessa fascia di età. Dunque per quella categoria di persone ci sarebbe persino un fattore benefico da quel punto di vista. Inoltre la rivista Lancet ha pubblicato uno studio secondo il quale il siero di AstraZeneca è tre volte più efficace di quello di Pfizer nella cosiddetta immunità cellulare, cioè quel tipo di immunità che non si realizza tramite la formazione di anticorpi, ma che consente ai linfociti T di aggredire e uccidere direttamente il virus. Questa risposta è molto veloce e altrettanto importante di quella da anticorpi. Infine i vaccini ad adenovirus sono più predisposti alla vaccinazione di massa, che è quella che dobbiamo fare: non sono vincolati alla catena del freddo, non vanno trasportati in celle frigorifere a -80 °C e perciò si prestano meglio a raggiungere i luoghi più remoti e le popolazioni più deboli ed emarginate. Dico quindi: attenzione a non escludere del tutto alcuni vaccini, ci servono tutte le armi”.
Tuttavia pare che vaccini come Pfizer e Moderna siano più efficaci contro la varianti. E’ vero?
“Probabilmente sì, perchè per le loro caratteristiche sono più flessibili e quindi più adatti ad essere modificati nel tempo per contrastare le varianti del virus, come si fa ad esempio con l’influenza di stagione, il cui antidoto viene aggiornato di anno in anno. Al momento comunque tutti i vaccini risultano efficaci contro le diverse varianti: ci sono dubbi solo su quella sudafricana”.
A proposito di varianti: quella inglese ormai rappresenta la stragrande maggioranza dei casi di contagio, ma è più pericolosa? E’ vero che stanno cambiando i sintomi?
“Ormai quasi il 90% dei casi sono legati alla variante inglese. Due studi pubblicati su Lancet ci dicono però che questa è più infettiva ma non di per sé più letale. Lo diventa, casomai, appunto perché è più facile contrarla. Sulle varianti brasiliana e sudafricana ci sono studi contrastanti: alcuni sostengono che quella sudafricana possa eludere i vaccini, ma non possiamo ancora affermarlo. Per quanto riguarda i sintomi, il British Medical Journal ha pubblicato uno studio molto serio, basato su 19.000 pazienti, secondo il quale nell’ultima ondata pandemica alcuni sintomi “classici” come la febbre alta, la tosse secca e la perdita di gusto e olfatto starebbero lasciando il posto ad altri sintomi meno violenti come nausea, spossatezza e problemi gastro-intestinali. Ancora non ci sono certezze al riguardo, ma è uno spunto da tenere in considerazione”.
Torniamo ad AstraZeneca. Molti under 60 hanno ormai ricevuto la prima dose, secondo lei ci sono problemi a somministrare loro anche la seconda? La Germania ad esempio ha suggerito di utilizzare un altro vaccino.
“Non abbiamo dati per stabilirlo, quindi una soluzione vale l’altra. Stando ai casi che già conosciamo, non ci sono stati eventi trombotici dopo la seconda dose ma solo dopo la prima, quindi tutto lascia pensare che chi non abbia avuto problemi dopo la prima dose, non ne abbia nemmeno dopo il richiamo”.
Non si può dunque dire una frase come “i vaccini a mRna sono più sicuri degli altri”?
“E’ più corretto dire che i casi di complicazioni legati alla somministrazione di vaccini ad adenovirus sono talmente rari che non devono arrivare a condizionare le valutazioni generali sulla loro sicurezza”.
Si parla tanto di immunità di gregge: la Gran Bretagna ritiene di esserci arrivata, ma è davvero così? E stando all’attuale piano vaccinale, quando potremo ipotizzare di raggiungerla in Italia?
“Per raggiungere quella che più propriamente chiamiamo immunità di gruppo, il 60% della popolazione deve aver completato il ciclo vaccinale. Quindi per il Regno Unito, che peraltro ha deciso di inoculare la prima dose a più persone possibile, ritardando la seconda, è ancora presto per parlare di immunità: metà della popolazione è stata vaccinata, ma solo il 6% ha ricevuto la seconda dose. Però hanno avuto un crollo dei contagi e dei decessi, e comunque saranno tra i primi a raggiungerla tra i grandi Paesi. In Italia secondo me, se alziamo il ritmo, possiamo ipotizzare di raggiungerla nei primi mesi del 2022, e sarei positivamente sorpresa se avvenisse prima”.
Quindi per il famoso “ritorno alla normalità” ci vorranno anni? E’ vero che dovremo vaccinarci contro il Covid per diversi anni prima di debellarlo?
“Non so dire quanti, ma direi che per debellare il Covid e tornare ad una piena normalità ci vorrà qualche anno. Il virus da pandemico diventerà endemico e dovremo conviverci, come facciamo con l’influenza stagionale. Sicuramente dovremo continuare a vaccinarci, e anche per questo è importante non escludere a priori nessun vaccino. Però confido anche nelle precauzioni: indossare mascherine FP2, rispettare il distanziamento, lavarsi spesso le mani sono azioni che abbattono del 95% il rischio di essere contagiati. Se davvero si sta attenti, il ritorno alla vita si avvicinerà”.
A proposito di vita e di normalità, alcuni studi hanno dimostrato che chiudere le scuole non rallenterebbe la diffusione del virus ma il contrario: Lei può confermare?
“Sì. Non è la scuola a portare in giro il virus, se si seguono i protocolli di sicurezza. Uno studio recente pubblicato su Lancet ha dimostrato, elaborando i dati di 7,3 milioni di studenti e 800.000 docenti, che nel periodo settembre-dicembre 2020 il tasso di positività dei ragazzi è stato sotto l’1%, e che nelle Regioni che hanno adottato la didattica a distanza l’incidenza del contagio non è diminuita. La scuola, come l’abbiamo pensata in questi mesi, è sicura. Bisogna riaprirla, in sicurezza, perché i danni sui giovani avranno effetti negativi anche sul Pil per un periodo molto lungo”.
L’Università Statale di Milano brilla per le ricerche sul Covid al punto da essere stata considerata dalla autorevole rivista Science la prima in Europa per la pubblicazione di contributi scientifici sulla pandemia: quali sono state le scoperte più rilevanti?
“Il riconoscimento si riferisce al primo semestre 2020: siamo stati valutati al primo posto in Europa e al quarto nel mondo, tra le università. Devo dire che siamo stati molto pronti, avevamo già le competenze in casa e abbiamo velocemente istituito un budget con cui finanziare le ricerche più promettenti. Solo ad aprile, c’erano già 233 studi sul Covid. Abbiamo spaziato su tutti i fronti, dal sequenziamento molecolare ai farmaci, dai dispositivi diagnostici (come i test salivari per i bambini) al brevetto per un dispositivo a raggi ultravioletti in grado di inattivare il virus in un ambiente chiuso. Fino alla retrodatazione del virus, che come è noto abbiamo scoperto essere presente in Italia già a settembre 2019. Ora stiamo svolgendo alcuni studi sui casi di trombosi rara legati ai vaccini”.
L’estate si avvicina e per far ripartire il turismo l’Ue sta studiando il cosiddetto pass vaccinale. La questione è soprattutto politica e etica, ma dal punto di vista scientifico lei che cosa ne pensa? Ha certamente un senso o può essere un rischio?
“Sono favorevole e confido nel lavoro della commissione europea, che per quanto mi riguarda sta operando bene. Ho letto la proposta presentata qualche settimana fa sul passaporto vaccinale e mi è sembrata ben fatta: sia sul tema delicato della privacy, sia perché non riguarderà solo i vaccinati ma anche i guariti e le persone sottoposte a tamponi recenti. Il punto più delicato è quello della durata del pass, che dovrà essere ben calibrata. Un vaccinato e un guarito possono ragionevolmente godere di qualche mese di immunità, nel caso dei guariti forse persino un anno, ma la validità di un tampone non deve andare oltre le 48-72 ore”.
Infine una domanda sulla Regione Lombardia, che è quella dove Lei vive e lavora. E’ la Regione più sviluppata d’Italia ma paradossalmente si trova in coda alla classifica delle vaccinazioni e solo ora con molto ritardo stia recuperando terreno: colpa degli errori del passato o del presente?
“Non voglio fare polemiche ma dirò questo: veniamo da un ventennio di riforme del sistema sanitario, pensato dal 1997 per dare sempre più spazio al privato e metterlo in competizione con il pubblico. Ne è venuto fuori un modello ospedale-centrico, con meno attenzione al territorio, alla prevenzione, all’assistenza domiciliare. Nel 2013 si è provato a porre rimedio a questo cortocircuito, ma purtroppo quella riforma è inciampata proprio sulla parte legata all’assistenza sanitaria territoriale. Anche sui vaccini sono preoccupata, ma in realtà vedo ancora tutto il Paese in affanno: serve un’accelerata”.
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Andrebbe gridato ovunque, ma i "giornali importanti" hanno altre fesserie a cui dedicarsi
Intervista interessante che fa chiarezza e scioglie molti dubbi. Complimenti all'intervista e all'intervistatore!