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Usa versus Cina e Mosca: come la geopolitica cambia l’export

Wikimedia Commons Gage Skidmore

La risposta cinese ai moniti in arrivo dal G7 non si è fatta attendere. Alla richiesta di allentare la presa militare nel mar Giallo, sempre più percorso dalle navi della marina di Pechino, l’aviazione di Xi Jing Ping ha opposto nella notte la missione di 28 aerei da combattimento, di cui 4 in grado di trasportare testate nucleari, nei cieli di Taiwan, sfiorando Taichung, la seconda città del Paese dove hanno sede 222 aziende in grado di dare una risposta, grazie ai macchinari di precisione ed al personale altamente specializzato, a qualsiasi problema della catena di produzione dei semiconduttori, un tesoro in cima alle preoccupazioni della tecnologia occidentale. Domani, poi, decollerà Shenzhou 12, il “Vascello divino” che porterà nello spazio tre astronauti di Pechino, la terza delle undici missioni che dovrebbero consentire la costruzione di una stazione spaziale della Repubblica Popolare, avamposto nei cieli della sfida cinese agli Usa che “continuano a comportarsi come gli unici signori della terra”.

Non c’è che dire: la globalizzazione, così come è cresciuta ai tempi della presidenza di Clinton e di Barack Obama, appartiene ormai al passato. E la speranza che l’apertura ai commerci avrebbe cambiato la Cina si è rivelata una grande illusione: semmai è Pechino, grazie alla combinazione tra progresso tecnologico e stretta autocratica sulla politica, ad aver cambiato a fondo la natura della globalizzazione, sull’onda dei “flop” imbarazzanti di Donald Trump i cui diktat non hanno scalfito la crescita del Know How di Pechino, forte di un’immensa disponibilità di dati per l’intelligenza artificiale o della leadership nel 5 G.

E’ su questa premessa che s’inquadra la reazione dell’Occidente, così come ha preso una prima forma in questi giorni, tra il vertice del G7 e l’accordo che segna la fine della guerra dei 17 anni tra gli Usa, schierati a protezione della leadership di Boeing, e l’Europa, paladina di Airbus che nel 2004 aveva avuto l’ardire di vender più aerei del colosso di Seattle, uno dei miti dell’imperialismo americano. Il conflitto, che si è trascinato con l’imposizione di dazi doganali a grappoli, cede ora il passo al clima di “cooperazione rafforzata” tra le due sponde dell’Atlantico. Certo, non sarà facile far lavorare da buoni amici i tecnici di Seattle con quelli di Tolosa ma le prospettive potrebbero essere ben più feconde in materia di intelligenza artificiale, di cybersicurezza e di sviluppo dei semiconduttori, il petrolio del xxi° secolo. Su questi terreni, ed ancor più sull’ambiente, l’Occidente è pronto a sfidare la Cina, anche con l’istituzione di un “Consiglio Euro-Americano per il commercio e la tecnologia”. 

E non è solo questione di tecnologia: perde colpi la “Via della seta”, la scommessa di Xi JingPing di ripercorrere a ritroso il viaggio di Marco Polo costruendo una rete capillare di contatti da Est ad Ovest coinvolgendo per giunta Africa, America Latina ed Eurasia, segna il passo, visti i costi e la scarsa redditività. Se ne è accorta la Macedonia, precipitata sull’orlo della bancarotta per far fronte agli impegni, ben poco trasparenti, con le banche cinesi che minacciano di lasciare i lavori a metà dell’opera se non vengono saldati.    

Anche questo serve a spiegare la prudenza di Mario Draghi, così saggio da non voler forzare la rottura con Pechino, ma altrettanto accorto dal liquidare gli effetti pratici dell’adesione italiana alla Via della Seta frettolosamente sottoscritta a suo tempo dal governo gialloverde di Giuseppe Conte, naturalmente con la benedizione di Beppe Grillo, forse l’unico politico occidentale schierato con la Cina contro Biden. In questi mesi il governo Draghi ha alzato la bandierina del Golden Power contro l’acquisizione del 70% di LPE, azienda lombarda impegnata nei componenti per circuiti integrati, da parte della Shenzhen Investment Holding. In precedenza, l’azione del governo aveva interessato dei contratti per la fornitura di apparecchi per la tecnologia 5G a Fastweb da parte di ZTE.

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La frenata, dopo l’iniziale entusiasmo targato Cinque Stelle, ha cominciato a manifestarsi nel novembre 2019, quando Roma ha annunciato il congelamento della collaborazione con Pechino in merito alla costruzione dei moduli pressurizzati della stazione spaziale cinese. Poi il porto di Trieste ha accolto l’investimento dell’autorità portuale di Amburgo anziché quello di China Communications Construction Company (Cccc), società da tempo ansiosa di espandere qui i propri affari come del resto gli altri gruppi cinesi attratti dai nostri porti (vedi Taranto), di cui riconosce la strategica posizione al centro del Mar Mediterraneo. Insomma, guai a rompere con un cliente di riguardo del made in Italy, a partire dal lusso e dall’agroalimentare, ma attenzione a stringere una partnership tecnologica e finanziaria troppo impegnativa, che pure sembra dare buoni frutti in Pirelli.

 Ancor più modeste le ambizioni per l’incontro tra il presidente Usa e Vladimir Putin. Il lungo vertice di Ginevra di oggi, almeno 5 ore di confronto, produrrà probabilmente una qualche intesa bilaterale, ma le ricadute economico-finanziarie saranno modeste, forse nulle. Eppure l’Occidente rischia a spingere, a suon di sanzioni, l’economia russa verso la Cina. 

 I paesi dell’Unione Europea restano il partner principale di Mosca, ma con dati in preoccupante calo. L’Ue rappresenta ancora il 37% dell’interscambio commerciale della Federazione (contro il 20% della Cina), ma la percentuale era del 42,5 nel 2019 e di oltre il 50 nel 2013. E se due anni fa gli scambi ammontavano a 262 miliardi di dollari, l’anno scorso hanno di poco superato i 190. Fino a una decina di anni fa Berlino dominava ad esempio le importazioni di apparecchiature industriali in Russia, ma è stata superata nel settore dalla Cina già nel 2016. Per questo si è alzato nel febbraio scorso l’appello preoccupato del ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, che ha chiesto al proprio paese e agli alleati occidentali se contrastare Mosca e spingerla a formare con Pechino la “più grande alleanza economica e militare del mondo” fosse la miglior strategia possibile: la quota dell’Unione Europea nel commercio estero russo è ancora il doppio di quella cinese, ma solo sette anni fa era cinque volte tanto. E se la Federazione continuerà a essere tenuta lontano dai nostri mercati, la cooperazione tra Mosca e Pechino si rafforzerà. Con un danno non indifferente per il tessuto delle piccole e medie imprese del made in Italy (abbigliamento ed arredo in testa) per cui la Russia resta un buon cliente. 

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Categories: Finanza e Mercati

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  • Beppe Grillo, forse l’unico politico occidentale. A me risulta un mediocre comico.

    " E se la Federazione continuerà a essere tenuta lontano dai nostri mercati, la cooperazione tra Mosca e Pechino si rafforzerà. Con un danno non indifferente per il tessuto delle piccole e medie imprese del made in Italy (abbigliamento ed arredo in testa) per cui la Russia resta un buon cliente. "
    Vista così può avere anche ragione , ma la politica internazionale e la geopolitica non si può considerare coem " un etto di prosciutto dal salumiere" credo che ci vuole molta più lungimiranza