Il primo aumento dei tassi di interesse USA in quasi 10 anni si prevede non dovrebbe provocare una crisi su larga scala nei mercati emergenti. Tuttavia, come riportato da Atradius, persistono alcuni rischi. Il rialzo arriva in un momento storico in cui i mercati emergenti stanno lottando con il rallentamento della Cina, i prezzi ridotti delle materie prime e sfide geopolitiche crescenti. Il rischio di un improvviso cambiamento nel clima di mercato è pertanto presente. In questo scenario, i Paesi più vulnerabili sono Turchia, Indonesia, Sud Africa e Malesia: hanno elevato fabbisogno finanziario esterno e relativamente basso buffer, per cui non sono affatto da escludersi misure di ristrutturazione e fallimento. Più vulnerabili risultano infatti essere proprio quei mercati con forte esigenza di finanziamento, elevato debito in valuta estera, politica monetaria discutibile.
Il rialzo dei tassi d’interesse rientra in un processo di normalizzazione della politica monetaria USA dopo aver smorzato gli effetti della crisi finanziaria iniziata nel 2007 nel mercato immobiliare interno. La Banca Centrale (Fed) ha abbassato i tassi di interesse nel dicembre 2008 e acquistato obbligazioni e altri titoli su larga scala (cosiddetto Quantitative Easing). Con il rafforzamento dell’economia statunitense, la necessità di una politica monetaria ultra-espansiva è diminuita. La Fed ha gradualmente acquistato meno obbligazioni e fino a terminare questo programma ufficialmente nell’ottobre 2014. All’inizio di quello stesso anno, la Fed ha cominciato anche a preparare le aspettative dei mercati al futuro aumento dei tassi di interesse annunciando le condizioni per la normalizzazione: il ritmo e la portata della normalizzazione dipenderebbe dalla forza dell’economia americana, in particolare riguardo occupazione e inflazione. La politica monetaria ultra-espansiva ha indirizzato nei mercati emergenti molti investitori alla ricerca di rendimento, provocando la pressione al rialzo su valute locali e aumento di patrimonio netto, prezzi delle obbligazioni e tassi d’interesse. Tassi di interesse inferiori, sia esterni che interni, hanno a loro volta stimolato la crescita dell’occupazione locale, in particolare nei settori di energia e costruzioni, che hanno aumentato il proprio indebitamento grazie ai flussi di denaro a buon mercato. La maggior parte dei prestiti sono stati elargiti sul piano nazionale in valuta locale, ma anche da banche estere con operazioni sempre più elaborate nel mercato internazionale dei capitali.
Un tale processo di deflusso di capitale rende il finanziamento del debito estero più difficile e costoso, e questo a causa del deprezzamento e dei tassi di interesse. In questo modo inducendo ad un declino nella solvibilità dei mutuatari nei Paesi emergenti. Particolarmente dirompenti sono, in questo contesto, gli “arresti improvvisi” dei flussi di capitale, che in passato spesso sono stati associati con aumenti repentini del tasso di interesse USA. A tali arresti improvvisi sono spesso seguite delle crisi della bilancia dei pagamenti: è per questo motivo che la Fed ha migliorato la propria strategia di comunicazione, mentre i mercati emergenti hanno al tempo stesso migliorato le proprie politiche macroeconomiche, passando a sistemi di tasso di cambio flessibile, costituendo solide riserve in valuta e migliorato struttura e composizione del debito. Di conseguenza, secondo gli analisti i Paesi emergenti sono ora meglio equipaggiati per resistere a un apprezzamento del tasso Fed, utilizzando riserve ufficiali e tasso di cambio come ammortizzatore. La misura dipende molto dalla necessità di finanziamento esterna lorda e la tempistica di rimborso del debito estero. Maggiore sarà questo fabbisogno, peggiore l’impatto di ammortamento sulla solvibilità dei debitori e maggiore la vulnerabilità ad una variazione nei flussi di capitale associati con una normalizzazione della politica monetaria degli USA.
L’aspettativa generale è che il rialzo dei tassi ad opera della Fed stessa avrà un impatto moderatamente negativo sui flussi di capitali verso i mercati emergenti e, di conseguenza, sulla solvibilità degli stessi debitori. Dopo tutto, questo decollo non avverrà come uno shock, bensì come processo di aggiustamento già in pieno svolgimento e secondo molti analisti in gran parte completato. Inoltre, sulla base delle comunicazioni della Fed, le aspettative dei mercati parlano generalmente di un graduale aggiustamento delle tariffe accompagnate da un rafforzamento dell’economia statunitense. Crisi su larga scala come nel decennio 1980-1990 non sono pertanto previste. Tuttavia, è atteso un ulteriore rallentamento della crescita economica nei mercati emergenti. Nei Paesi che commerciano maggiormente con gli USA, come Messico e America Centrale, l’impatto negativo sarà parzialmente compensato da un aumento delle esportazioni.
Ad ogni modo, c’è comunque incertezza circa le stime di crescita dell’economia statunitense nel medio-lungo periodo e l’aumento dei tassi giunge in un momento in cui l’ambiente economico è già difficile per i mercati emergenti a causa del rallentamento della Cina, il calo della mole di flussi commerciali a livello globale, prezzi ridotti delle materie prime e rischi geopolitici crescenti. Il rischio di un repentino cambiamento del clima di mercato è pertanto presente. Ecco allora che i più vulnerabili sono quei Paesi (e quelle imprese) con alto fabbisogno di finanziamento esterno e riserve in valuta insufficienti. Ciò si applica specialmente in Turchia e, in misura minore, Indonesia, Sud Africa e Malesia.