Esistono alcune regole fondamentali che aiutano a capire, anche nel 2020, le logiche del voto presidenziale americano. Nei momenti di grande confusione, e quello attuale certamente lo è, torna utile ricordarne almeno tre:
- Non è facile spodestare un presidente in carica che si presenta per la rielezione.
- Se l’economia va male chi ha il potere rischia.
- Le guerre non aiutano un presidente in carica che cerca la rielezione.
REGOLA N. 1
La prima regola è potente e aiuta Donald Trump. Su 13 presidenti in carica, da Franklin D. Roosevelt a Barack Obama, 9 sono stati rieletti e 3 no: Gerald Ford nel 1976 causa coda del Watergate, Jimmy Carter nel 1980 causa inflazione e crisi degli ostaggi a Teheran, e George Bush padre nel 1992, sconfitto per la presenza di un terzo partito che da posizioni nazional-populiste gli sottrasse vari milioni di voti sul tema soprattutto del Nafta, la grande intesa economica e commerciale con Canada e Messico.
REGOLA N. 2
La seconda regola, con gli effetti devastanti del coronavirus sull’occupazione, gravi soprattutto in un Paese dove le tutele degli stipendi sono più deboli che in Europa, dice che Trump si presenta azzoppato; nessuno sa quanti degli attuali 20 milioni di disoccupati, il 14,7% della forza lavoro, con il tasso più che quadruplicato ad aprile (ultimi dati completi disponibili) rispetto a febbraio, saranno tornati al lavoro il 3 novembre, giorno del voto. Si sa però che i sussidi, aumentati come durata del 50% (39 settimane invece delle normali, a maggioranza, 26 settimane), finiranno con la fine 2020. Per maggio, nonostante alcune riprese del lavoro, si prevedeva fino a ieri una disoccupazione attorno al 20 per cento, ma i primi segnali indicano forse assai meno, attorno al 17, sempre un numero brutto però per un presidente che cerca di rinnovare il mandato.
REGOLA N. 3
E infine le guerre, e ce ne sono due. Quella al coronavirus, un campo di battaglia sul quale Trump ha perso consensi soprattutto nell’elettorato anziano, sua roccaforte, e quella fatta esplodere dall’omicidio da parte della polizia il 25 maggio a Minneapolis dell’afroamericano George Floyd, con proteste da oltre una settimana, saccheggi e incendi in oltre 40 aree urbane, guardia nazionale in campo, duri scontri anche di fronte alla Casa Bianca e alla fine paventato utilizzo anche di battaglioni (250 uomini ciascuno circa) della polizia militare, pronti a intervenire a Washington e Minneapolis. Non è uno spettacolo nuovo, i disordini razziali sono da oltre un secolo una costante periodica della scena americana, a partire dalla Red Summer, l’estate rossa (di sangue) del 1919 per limitarci al 900, con 26 città coinvolte e i disordini più gravi a Chicago, innescati allora da un incidente analogo a quello di Minneapolis. Il sottofondo era nel 1919 il ritorno all’economia di pace e l’espulsione dal lavoro dei neri che avevano sostituito la manodopera bianca mandata a combattere in Europa, e l’ira dei veterani neri che si vedevano discriminati. Poi a intervalli più o meno lunghi, a volte molto lunghi a volte no, le stesse scene si sono sempre ripetute, le ultime davvero gravi nel caso Rodney King a Los Angeles nel 92, con 50 morti e oltre un miliardo di danni. Le due comunità, bianchi e neri, convivono da 400 anni, per tre secoli padroni e schiavi, anche dopo il Proclama di emancipazione del settembre 1862, un anno e mezzo dopo l’inizio della Guerra Civile che non fu combattuta per liberare gli schiavi ma per altri motivi, economici soprattutto. Sono due comunità fino a 60 anni fa spesso nettamente separate, e che anche oggi non si integrano se non marginalmente.
Anche numerosi parlamentari repubblicani sono preoccupati perché i toni scelti da Donald Trump di fronte ai riot sono usati più per fare appello alla fedeltà dell’elettorato bianco a tinte più o meno razziste che per guidare il Paese fuori da questo guaio prima, e poi verso migliori relazioni razziali, se possibile, dopo. Trump, indebolito dal coronavirus e dalla sua inadeguata risposta sanitario-sociale, spera di recuperare ora con “legge e ordine”. I saccheggi fanno parte sempre della reazione di una quota della comunità nera, ci furono anche nel cuore di Manhattan durante il blackout elettrico del luglio 1977, quando il razzismo non era in campo. Così come sempre abbondano i bianchi convinti, ignorando secoli di discriminazione, che gli afroamericani siano in gran parte responsabili dei propri guai.
LE INTENZIONI DI VOTO
Per ora non si leggono nelle intenzioni di voto movimenti decisivi e sarebbe comunque ancora presto per ritenerli tali. Agosto-settembre è il momento in cui molti americani si avvicinano a una scelta. Il candidato democratico Joe Biden ha migliorato le proprie posizioni sia nei sondaggi nazionali, che già lo vedevano nettamente in testa, che in quelli locali, in genere più significativi, in Stati-chiave come Michigan, Wisconsin e Pennsylvania che, con pochi altri, decideranno probabilmente come nel 2016 l’esito del voto. Quattro anni fa Trump fu ampiamente sottovalutato e vari guru americani della politica dovettero cospargersi il capo di cenere perché fino all’ultimo sostennero che Hillary Clinton lo avrebbe stroncato. Era possibile invece vedere, a partire da fine gennaio 2016, che Trump aveva realistiche possibilità di farcela. A maggio-giugno erano evidenti, e chi non volle vederle parlava nella notte italiana dell’8 novembre di “sorpresa”, mentre era sorprendente che vari inviati e corrispondenti, a incominciare da quelli Rai, fossero sorpresi. Trump, portando in dote il suo fastidioso folklore personale, non era una meteora, ma il portavoce di un filone ipernazionalista esistente nell’America moderna a partire dagli anni 20, spregiatore di ogni alleanza se non occasionale. In più aggiungeva il ruolo di “vendicatore” neopopulista facendo all’odiata Washington quello che noi chiamiamo il gesto dell’ombrello e in America definiscono con l’espressione flip the bird, quella del dito medio alzato.
LE POSSIBILITÀ DI TRUMP
Il gioco dell’immobiliarista newyorkese riuscirà una seconda volta dopo pandemia, disoccupazione e riots? È presto per dirlo. Ma potrebbe. E per l’Europa sarebbe una sciagura. “Ha distrutto in 17 minuti 70 anni di soft-power americano”, cioè di idee e di diplomazia americana, scriveva il Financial Times dopo il discorso inaugurale del gennaio 2017. E da allora ha continuato a farlo. Avrebbe bisogno a breve di un G7 unito (la presidenza di turno è americana) per condannare Pechino su Hong Kong ma non vuole ridare credito a un’istituzione che detesta e allora rinvia il summit, parla di invitare Mosca che invece su Hong Kong e su tutte le scelte di politica autocratica è dalla parte cinese, e di invitare altri, svuotando il G7, e Angela Merkel ha già fatto sapere che non ci andrà; vuole punire Pechino per il coronavirus ma invece di cercare alleati, parola detestata, per mettere in riga l’Oms troppo ossequiente con la nomenklatura cinese annuncia l’abbandono americano del forum sanitario globale, dove la Cina, che in sede Onu sta facendo una opposta politica presenzialista, conterà più ancora di prima.
Odia la Ue, ama la Brexit – vedremo come finirà – e non ha capito dall’alto della sua crassa ignoranza (non saprebbe spiegare in poche parole a una scolaresca che cosa è stata la politica estera americana nei cruciali anni 45-50 perché non conosce né protagonisti né decisioni né date) che gli alleati possono sì essere irritanti, ma nelle crisi consentono di non essere soli. Non ha mai capito, e con lui non lo ha mai capito il nazionalismo americano sordo al fatto che America first vuol dire America alone, che il legame atlantico è un valore perché fa la differenza tra gli Usa, che hanno alleati e di vecchia data ormai, e la Russia e la Cina, che non ne hanno. Per questo la comunità diplomatica e militare americana non gli perdonerà mai quello che ha fatto e sta facendo, e vorrebbe tanto, come vorremmo noi, che Joe Biden, 78 anni quando a gennaio potrebbe (forse) insediarsi alla Casa Bianca, avesse 10 anni di meno e quindi più chances di vittoria.
L’insistenza di Trump ha costretto il Pentagono a dire che l’esercito non può essere schierato nelle città. Gli afroamericani? Del loro dramma storico Trump sa poco. Per lui Louis Armstrong non ha mai cantato What did I do / To be so black / And blue.
Sullo stesso argomento, leggi anche l’intervista a Stefano Silvestri, ex presidente dell’Istituto Affari Internazionali.