Nei mesi scorsi, il professore Stefano Luconi, docente di storia americana presso l’Università di Padova, ha seguito e commentato per goWare e FIRSTonline il lungo processo elettorale culminato nel voto del 5 novembre 2024, iniziato con le primarie nel caucus dello Iowa nello scorso gennaio.
A conclusione di questo articolato percorso, nel ringraziarlo, gli abbiamo chiesto un commento finale sui risultati delle elezioni e sul loro significato nel medio-lungo periodo per la storia americana.
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A quasi due settimane dallo spoglio dei voti, numerose analisi concordano nel considerare le elezioni presidenziali del 5 novembre un momento di svolta nella storia politica degli Stati Uniti. Tale giudizio risente in parte della retorica propagandistica dei candidati di entrambi i maggiori partiti.
Infatti, nel corso della campagna elettorale, sia Donald Trump sia Kamala Harris avevano presentato l’esito della sfida del 2024 per la Casa Bianca come un evento decisivo per il futuro della società americana. Da tale prospettiva, in questa occasione si sarebbe combattuto l’ultimo e determinante scontro tra una concezione conservatrice, con derive autoritarie, illiberali e razziste secondo i democratici, e una visione progressista, a giudizio dei repubblicani appiattita sul sistema valoriale di una élite sempre più lontana dai bisogni reali di una popolazione che non avvertiva ricadute concrete sulla propria vita quotidiana di un andamento positivo da parte dei principali indicatori macroeconomici.
La rottura del 5 novembre
Esistono elementi per attestare che il risultato della corsa di quest’anno per la presidenza abbia rappresentato una effettiva cesura. In campo repubblicano, Trump ha conquistato la Casa Bianca con la maggioranza del voto popolare, un obiettivo che aveva mancato nel 2016, quando la sua sfidante democratica Hillary Clinton aveva raccolto circa tre milioni di preferenze più di lui, e che negli ultimi trentasei anni i repubblicani avevano centrato solo nel 2004, con George W. Bush, e nel 1988, con suo padre George H.W. Bush.
Inoltre, la maggioranza repubblicana alla Camera e al Senato appare oggi molto più coesa di quella uscita dalle elezioni del 2016. Infatti, le pesanti ingerenze di Trump nelle primarie del suo partito dal 2018, gli hanno consentito di allontanare dal Congresso i propri oppositori interni.
Per esempio, la deputata del Wyoming Liz Cheney, che era stata la vicepresidente della commissione d’inchiesta sulle responsabilità di The Donald per fatti del 6 gennaio 2001, è stata battuta nel 2022 da Harriet Hageman, la candidata appoggiata dal tycoon, mentre il senatore dello Utah Mitt Romney, l’unico repubblicano a votare a favore della rimozione di Trump dalla presidenza al tempo del primo impeachment di The Donald per l’Ucrainagate, ha addirittura preferito non ripresentarsi per un secondo mandato.
Trump è così riuscito a forgiare questa compagine politica a propria immagine e somiglianza a tal punto che si potrebbe legittimamente parlare di una trasformazione del partito repubblicano in un MAGA Party.
Invece, in casa democratica, si è scatenato un conflitto interno – che ha trovato un’ampia eco sui media di orientamento progressista – per rinfacciarsi gli errori che avrebbero favorito l’elezione di Trump: il mantenimento di una prolungata omertà sulle condizioni di Joe Biden; il ritardo nell’indurre il presidente a rinunciare alla candidatura; l’imposizione dall’alto di una sostituta poco carismatica e incapace di manifestare empatia; la designazione di un personaggio incolore quale Tim Walz per la vicepresidenza; la demonizzazione di The Donald, che gli avrebbe permesso di presentarsi agli elettori come la vittima di una cospirazione ordita da una magistratura politicizzata in combutta con la Casa Bianca; l’aver incentrato la campagna elettorale sulla salvaguardia della democrazia, sulla difesa di diritti civili come l’interruzione volontaria della gravidanza e su altri temi valoriali nobili ma lontani dai problemi economici dei cittadini; il ridimensionamento, attraverso alcune dichiarazioni di Harris, in senso moderato e centista delle posizioni programmatiche consuete nel passato più recente (per esempio, la legittimazione del fracking, il rafforzamento del contrasto all’immigrazione irregolare, il consolidamento della supremazia militare statunitense su scala planetaria, l’interpretazione del secondo emendamento della Costituzione nei termini di diritto individuale – anziché collettivo – a detenere armi, l’avallo all’escalation bellica di Israele in Medio Oriente in risposta agli attentati terroristici di Hamas del 7 ottobre 2023) con il conseguente allontanamento di segmenti rilevanti dell’elettorato giovanile, generalmente ambientalista, più disponibile all’accoglienza, internazionalista ma non militarista, contrario alla diffusione delle armi e filopalestinese.
Le premesse del voto del 5 novembre
Tuttavia, soffermarsi sugli errori commessi dai democratici nel 2024 comporta perdere di vista fenomeni di medio periodo. Implica soprattutto attribuire al primo mandato di Trump un carattere di accidentalità, anziché di premessa di quanto è avvenuto una decina di giorni fa.
The Donald, come ha sostenuto il politologo Gianfranco Pasquino proprio il giorno dopo il voto, è un grande “imprenditore del malcontento”. Ma il tycoon aveva rivelato questa sua dote già nel 2016 quando, contro quasi tutti i pronostici e i sondaggi di opinione, aveva strappato la Casa Bianca a Hillary Clinton, cavalcando soprattutto quello stesso senso di insicurezza per l’andamento dell’economia che, accentuatosi durante l’amministrazione di Biden, lo ha portato alla presidenza per una seconda volta quattro anni più tardi.
In particolare, fin dal 2016 Trump è stato capace di illudere ampi settori di un ex ceto operaio, costretto a riciclarsi nel settore dei servizi, sulla reversibilità di un fenomeno quale la terziarizzazione delle attività produttive che rappresenta uno sviluppo inarrestabile nelle economie avanzate come quella statunitense.
Chi parla di una svolta costituita dal voto del 5 novembre sembra dimenticare quanto si stava profilando all’inizio del 2020. In quel momento, Trump si giovava di un tasso di disoccupazione che, in febbraio, era sceso al 3,5%, grazie anche un rallentamento della delocalizzazione dell’industria manifatturiera statunitense all’estero per il connubio tra l’abbassamento della corporate tax dal 35% al 21% e le minacce dell’inasprimento del protezionismo doganale a scapito delle aziende americane che intendevano trasferire la produzione in Messico e in altri Paesi stranieri.
Trump era lanciatissimo verso un secondo mandato già quattro anni fa, prima che la pandemia del covid-19 si abbattesse sugli Stati Uniti e sulle sue speranze di bissare il risultato del 2016. A causa del superamento della soglia dei 230.000 morti il 1° novembre, a due giorni dal voto, e in conseguenza della disoccupazione schizzata al 14,4% in aprile, sebbene fosse poi scesa al 6,9% in ottobre, fu la contingenza del coronavirus a determinare la sconfitta del tycoon nel 2020.
La questione del genere
Questa constatazione conduce a ridimensionare una interpretazione della sconfitta di Harris in chiave di genere. Per esempio, sul “New York Times” Elizabeth Spiers ha identificato uno dei principali fattori dell’elezione di Trump nel suo essere il propugnatore di una “mascolinità egemonica”.
Sebbene Spiers si riferisse a un messaggio che avrebbe attratto soprattutto gli uomini “bianchi”, è innegabile che, in confronto alla prestazione di Biden nel 2020, Harris ha registrato un calo di consensi fra i maschi ispanici e quelli afro-americani. Tra questi ultimi, stando ad alcuni sondaggi, Harris avrebbe subito un crollo di circa venti punti percentuali rispetto a quanto raccolto da Biden in ragione del maschilismo di uomini afro-americani tendenzialmente insofferenti verso le donne in posizione di potere, soprattutto se espressione della loro stessa minoranza razziale.
Tuttavia, il fatto che la misoginia abbia sicuramente penalizzato Hillary Clinton nel 2016 e Harris quest’anno non significa che Biden abbia vinto nel 2020 in quanto uomo, perché l’elemento determinante del suo successo fu l’annullamento degli effetti positivi dei primi tre anni di amministrazione Trump sull’economia dovuto al covid-19.
L’avvento di una “epoca Trusk”?
Nonostante le previsioni un po’ catastrofiste sull’instaurazione di una presunta “epoca Trusk” (crasi di Trump e Musk), come paventa Walter Veltroni, l’affermazione del tycoon alle urne è stata molto meno travolgente di quanto possa sembrare a letture un po’ superficiali e sensazionalistiche.
Pur aggiudicandosi 31 Stati su 50, The Donald ha sopravanzato Harris di appena due punti percentuali (il 50,2% contro il 48,2%) e di circa tre milioni di voti popolari (75,8 milioni rispetto a 72,8) su un totale di oltre 150.
Il margine del candidato repubblicano si è configurato come ancora più contenuto in tre dei sette swing States, gli Stati incerti con orientamenti fluttuanti tra una consultazione e l’altra, che sono risultati decisivi per la conquista della Casa Bianca.
Per esempio, in Pennsylvania, lo Stato in bilico con il più consistente pacchetto di grandi elettori (diciannove), Trump ha ottenuto un vantaggio di appena l’1,86%, corrispondente a 130.584 voti su quasi sette milioni. In Michigan, dove erano in palio quindici grandi elettori, il divario tra i due candidati è stato perfino inferiore: l’1,41%, pari a meno di 80.000 voti su un totale di più di 5,5 milioni.
In Wisconsin, con i suoi dieci grandi elettori, il vantaggio di Trump non ha oltrepassato lo 0,9%, cioè non più di 30.000 voti su 3,4 milioni. Se avesse vinto in questi tre Stati, Harris avrebbe conseguito 270 voti elettorali, anziché 226, e sarebbe entrata alla Casa Bianca.
In altre parole, l’ampiezza del successo di Trump è stata ben lontana dalle landslidea, le vittorie schiaccianti, riportate da candidati del passato: il democratico Franklin D. Roosevelt ottenne un secondo mandato nel 1936 con il 61% del voto popolare e un bottino di 48 Stati su 50; il suo compagno di partito Lyndon B. Johnson trionfò nel 1964 con il 61,1% e il conseguimento di 44 Stati; il repubblicano Richard M. Nixon fu confermato alla presidenza nel 1972 con il 60,7% e la conquista di ben 49 Stati.
Le prime incrinature di “Trusk”
D’altro canto, l’“epoca Trusk” è iniziata con passo falso. Il candidato preferito da Elon Musk per la successione di Mitch McConnell del Kentucky alla carica di leader della maggioranza repubblicana al Senato, Rick Scott della Florida, è stato sconfitto da un esponente della componente meno trumpiana del partito, John Thune del South Dakota, che si insedierà formalmente il prossimo 3 gennaio.
Inoltre, alcuni membri repubblicani del Senato, il ramo del Congresso a cui la Costituzione affida il compito di ratificare o bocciare le nomine presidenziali per la guida dei dicasteri del governo federale, hanno manifestato dubbi, perplessità e resistenze riguardo ad alcune scelte di Trump, soprattutto per quanto concerne la designazione di Robert F. Kennedy Jr., un noto attivista no-vax perfino all’acme della pandemia del covid-19, a capo del Dipartimento della Salute.
Una società ancora profondamente divisa e il futuro del partito democratico
Malgrado l’elezione di Trump, la società statunitense continua a restare spaccata in due metà quasi equivalenti in termini numerici. Nello specifico, non si è registrata una particolare avanzata di The Donald in termini di seguito elettorale.
Nel 2020 aveva ottenuto 74,2 milioni di voti popolari e, quindi, in quattro anni è riuscito a aumentare il proprio consenso di non più di 600.000 voti. In una elezione che ha visto uno iato comunque contenuto tra i candidati dei due principali partiti, questo incremento relativamente modesto è stato sufficiente a consegnare la Casa Bianca a Trump.
Di contro, rispetto a Biden, che nel 2020 aveva ricevuto quasi 81,3 milioni di voti, Harris ha perso 8,5 milioni di elettori che, in larghissima misura, si sono astenuti, anziché passare al partito repubblicano, e dunque non ne hanno avallato né condiviso le politiche sovraniste, protezionistiche e xenofobe.
Dalla loro mobilitazione dovrà ripartire il partito democratico per tornare a essere competitivo. Il suo compito risulterà molto più facile se proporrà politiche del lavoro credibili e si libererà di una dirigenza formatasi negli anni Novanta del Novecento, inebriata dalla crescita economica della globalizzazione durante i due mandati di Bill Clinton, ma incapace di rendersi conto dei costi dell’integrazione dei mercati sulla odierna qualità della vita di numerosi lavoratori statunitensi. Ad aprire a Trump le porte della Casa Bianca per la seconda volta, è stata proprio questa componente dell’elettorato, trascurata dai democratici, e composta da ex operai industriali diventati addetti dei servizi, un settore con retribuzioni molto più basse a parità di orario svolto e minori tutele a partire dalla continuità dell’impiego, che hanno sofferto l’aumento del costo della vita nel quadriennio dell’amministrazione Biden, a fronte di un tasso d’inflazione balzato a oltre il 7% nel gennaio del 2022, anche se poi calato al 2,4% dello scorso settembre, quando però i pochi risparmi di una vita erano stati ormai falcidiati.
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Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).
Libri:
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle
Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35 euro edizione cartacea, 6,99 euro edizione Kindle