Due cifre stanno procedendo di pari passo negli Stati Uniti: la crescita del Pil e dell’occupazione da un lato, e il tasso di gradimento per il presidente Barack Obama dall’altro, gradimento tornato ormai all’equilibrio fra favorevoli e contrari dopo un anno di orientamenti assai più negativi. La rielezione sarà sempre una partita difficile per Barack Obama, dato lo stato sostanzialmente pesante di occupazione e redditi, ma se la situazione attuale regge fino alla vigilia del voto il quadro risulterà assai meno compromesso del previsto.
I dati del 6 gennaio sull’occupazione di dicembre sono buoni, portando il tasso di disoccupazione ufficiale (quello reale è peggiore) dall’8,7% di novembre, dato rivisto dopo un 8,6% iniziale, all’8,5, che è lo stesso livello del febbraio 2009. Gli economisti si aspettavano che i posti creati nel settore privato e pubblico, agricoltura esclusa, fossero 150mila e invece risultano per ora a dicembre a quota 200 mila. La disoccupazione si conferma quindi sotto il 9% e resta aperta la speranza che si arrivi in estate sotto l’8 per cento. La rielezione di Obama ne avrebbe bisogno.
Il consenso fra gli economisti dice però che probabilmente l’attuale ripresina subirà un rallentamento. Un anno fa numerosi economisti, di grandi banche e finanziarie per lo più, indicavano una crescita 2011 del 3,5-4 per cento. E’ stata pari alla metà della forbice inferiore di quel pronostico, più meno, ma comunque qualcosa si è mosso. L’ex ministro del Bilancio di Obama, Peter Orszag, che oggi lavora per Citigroup, ha individuato nelle spese per impianti e macchinari e per software il 60% della crescita realizzata nel terzo trimestre, pari all’1,8% nei dati più aggiornati (al ribasso). I sussidi di disoccupazione sono scesi ai livelli del giugno 2008, quando già l’economia era in recessione da sette mesi ma nessuno ancora bene lo sapeva. Le aspettative per il 2012, che hanno visto anche qui l’abituale fiammata ottimistica di inizio d’anno, parlano per il Pil di un più 2,5-3 per cento.
Gli europei hanno una antica abitudine a guardare oltre Atlantico per sentirsi rincuorati e non c’è dubbio che nel quadro pesante e recessivo della attuale economia europea gettare uno sguardo sugli Stati Uniti fa, se ci si ferma a una parte dei dati macro, un po’ di invidia.
Alcuni caveat tuttavia non vanno ignorati. Come dice da tempo Stephen Roach, l’ex autorevole – e corretto, cosa non automatica in un economista di grande banca – capo economista di Morgan Stanley e oggi docente a Yale, non si capisce da dove possa venire una spinta sufficientemente robusta, in un’economia la cui crescita è affidata per oltre il 70% ai consumi, se la crescita di questi ultimi resta bassa e di gran lunga la più anemica nella storia di tutte le fasi di ripresa dell’economia Usa.
Un secondo punto da non dimenticare è che nonostante gli ultimi mesi discreti per l’occupazione, dal dicembre 2007 cioè da quando è incominciata l’ultima recessione, ufficialmente conclusa nel giugno 2009, risultano persi e non più recuperati 6,28 milioni di posti di lavoro.
Un terzo punto ci riporta ai calcoli fatti mesi fa in “Lost Decades” da Jeffry Frieden di Harvard e Menzie Chinn dell’Università del Wisconsin, calcoli che indicano in 3,53 mila miliardi di dollari 2005 la perdita di Pil potenziale fra l’ultimo trimestre 2007 e il primo trimestre 2014, data alla quale si spera le nubi della grande crisi di inizio millennio potrebbero davvero incominciare a diradarsi.
L’America ritorna locomotiva? No, gli Stati Uniti hanno vissuto e stanno forse esaurendo una ripresina. Potrebbe tenere botta ancora per sei mesi. Così’ come fra sei mesi, se le previsioni dell’Ecri di New York (Economic Cycle Research Institute) sono esatte, l’economia americana potrebbe essere sull’orlo di una nuova recessione. L’Ecri, istituzione privata che vende i propri scenari a una affezionata clientela, è molto contestata per questo suo quadro scettico, ma va detto che in 15 anni non ha mai sbagliato. Speriamo si sbagli ora.
Se l’ Ecri sbaglia, Obama può farcela. Se non sbaglia, sarà difficile, nonostante uno schieramento di candidati repubblicani che finora sembra voler offrire al presidente le migliori chances possibili di rielezione.