Elezioni di midterm americane: come stanno per cambiare Camera e Senato e cosa accadrà se il presidente Donald Trump dovesse perdere uno (o entrambi) i rami del Congresso? FIRSTonline lo ha chiesto a Davide Borsani, ricercatore associato dell’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) ed esperto di Stati Uniti: “Queste elezioni non vanno viste solo come un referendum sul tycoon ma per lui sarà importante difendere soprattutto il Senato, che è il ramo del Congresso decisivo sui grandi dossier di politica estera, dalla Russia, all’Iran e alla Corea. La rimonta dei democratici? Possibile, ma manca ancora un leader”. Tra volti nuovi, soprattutto in casa Dem, ed elettorato bianco dell’America profonda ancora disposto a seguire Trump e i repubblicani, ecco quello che potrebbe accadere.
Il midterm è storicamente un termometro della prima metà del mandato di un presidente e solo in due casi l’inquilino della Casa Bianca ne è uscito indenne: nel 1934 con Roosevelt e nel 2002 con George W. Bush, sulla scia dell’11 settembre. In tutti gli altri casi, Obama compreso, il presidente ha perso almeno un ramo del Parlamento. Accadrà anche stavolta?
“Difficile dirlo. Intanto vanno premesse alcune cose: nel voto di midterm l’affluenza è solitamente inferiore rispetto alle presidenziali, vanno a votare solo gli elettori più delusi e proprio per questo spesso il presidente in carica ne esce sconfitto. Stavolta però stando ad alcune sensazioni l’affluenza potrebbe essere superiore al 40%, e questo dovrebbe favorire Trump. Il quale, nonostante non abbia la stessa popolarità sulla stampa del suo predecessore Obama, non si discosta molto da lui quanto a indice di gradimento in seno alla popolazione. Il risultato tuttavia dipenderà anche dai vari candidati, Stato per Stato. Nel caso dei repubblicani, molti candidati si stanno mostrando più vicini a Trump e alle sue politiche protezionistiche piuttosto che alla linea moderata e liberista tipica del Grand Old Party. Ecco perché il presidente ha partecipato a molti comizi, compresi quelli di Ted Cruz, suo avversario alle Primarie due anni fa e ora ricandidato per un seggio al Senato in Texas. Bisogna tenere conto del fatto che l’opinione pubblica è sempre più polarizzata”.
A proposito di Texas, è uno Stato chiave anche in vista delle presidenziali: dopo la California è quello che dà il maggior numero di grandi elettori ed è storicamente una roccaforte repubblicana. Alcuni sondaggi dicono però che sia in bilico, vista l’ascesa del democratico Beto O’ Rourke.
“Beto è in recupero, è vero, ma stando ai dati degli istituti di sondaggio, il Texas non dovrebbe essere uno Stato in bilico. E’ anche vero che di questi tempi le previsioni vanno messe in discussione: nessuno di aspettava la vittoria di Trump due anni fa e nemmeno la Brexit. Ma Cruz secondo alcuni rilevamenti ha fino a 10 punti di vantaggio e il margine di errore dei sondaggi è intorno al 3%”.
Quale è allora uno Stato chiave dove la partita è aperta?
“La Florida, dove si vota anche per il governatore. I Dem hanno candidato Andrew Gillum, che se venisse eletto sarebbe il primo afroamericano alla guida del Sunshine State, che storicamente è uno Stato chiave. Tendenzialmente repubblicano, è stato decisivo nel 2000 per l’elezione di Bush jr e anche Trump ha conquistato questo cosiddetto swing state due anni fa. Stavolta la partita sembra apertissima”.
Questa è un po’ la tornata delle minoranze, in casa Dem: c’è il candidato afroamericano in Florida ma anche Stacey Abrahams che in Georgia, terra di Martin Luther King, lotta per il diritto al voto tuttora negato in alcuni casi ai neri. Ma ci sono anche la portoricana Alexandria Ocasio Cortez a New York, la rifugiata somala Ilhan Omar a Minneapolis, che sarebbe la prima musulmana (col velo) ad entrare in Congresso, o ancora Christine Hallquist, candidata transgender nel Vermont. Conviene al Partito democratico giocare tutte le sue carte sulle minoranze?
“Questo sta succedendo perchè i Dem sono privi di leadership, per cui qualunque emergente che abbia un minimo di carisma e sia magari giovane, o donna, o nero, o con una storia particolare, finisce sulle prime pagine dei giornali. La stessa liberal Ocasio Cortez, di cui si parla tanto e che con i suoi 29 anni sarebbe la più giovane di sempre eletta alla Camera, probabilmente vincerà a New York, è vero, ma si tratta ormai di una roccaforte democratica. Alle Primarie ha battuto un pezzo grosso del partito, ma ciò è in linea con quanto accaduto due anni fa, quando Bernie Sanders sorprendentemente diede filo da torcere alla favoritissima Hillary Clinton con la sua linea liberal. Anche l’emergere di Beto non è necessariamente significativo: quando sono tanti singoli personaggi a destare attenzione, significa che non esiste un esponente in grado di unificare il partito. Ci sono alcune figure interessanti, accomunate però più che altro dall’essere contro Trump. Non darei dunque molto peso a questi fenomeni, la verità è che se i repubblicani hanno in Trump un leader, per quanto controverso, in casa democratica lo sfidante alla Casa Bianca nel 2020 è ancora tutto da costruire. La demografia degli Stati Uniti sta cambiando: ci sono meno bianchi, ma questi sono ancora circa il 70% della popolazione, quindi non si vincono le elezioni puntando solo sulle minoranze etniche. Senza contare che non tutte le minoranze votano Dem: in Florida, ad esempio, una buona parte della comunità ispanica ha chiare preferenze repubblicane”.
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Alcuni di questi volti nuovi appartengono però all’area “sandersiana”, o socialdemocratica come diremmo in Europa. Non potrebbe essere dunque considerato Bernie Sanders il leader democratico del momento?
“Sanders ha indicato un indirizzo politico, ma non può essere considerato il leader né di oggi né di domani per questioni prima di tutto relative all’età. Sanders, che formalmente non fa parte del Partito democratico anche se ne ha influenzato il dibattito, ha perso il suo treno due anni fa, quando avrebbe potuto giocarsi le sue carte contro Trump, visto che andava ad intercettare lo stesso malcontento: quello dell’elettorato bianco, non tanto povero quanto disilluso e tradito dalla globalizzazione, e dimenticato dall’establishment democratico che invece si è concentrato su altro. Quell’elettorato, composto dal cittadino medio americano che si sente minacciato dalla globalizzazione e dall’immigrazione, adesso sostiene convintamente Trump e sarà difficile invertire la tendenza da qui alle prossime presidenziali. Per questo dico che i Dem non mi sembrano sulla strada giusta”.
Eppure i sondaggi dicono che martedì 6 novembre potrebbero strappare la Camera ai repubblicani, e contendere la maggioranza anche in Senato.
“I sondaggi dicono che il Senato è in bilico ma tendenzialmente repubblicano, mentre la Camera potrebbe colorarsi di blu, che è il colore del Partito democratico. La partita è apertissima, sarà importante soprattutto la sfida al Senato, che è lì dove Trump può essere sfidato sui grandi dossier della politica internazionale: da ultimo quello con la Russia sui missili, ma anche Iran, Corea del Nord, Medio Oriente”.
Cosa accadrà se Trump dovesse perdere un ramo del Congresso?
“C’è da dire che il presidente ha iniziato il suo mandato col Congresso contro, visto che molti parlamentari del GOP all’inizio non lo sostenevano. Ricordiamoci sempre che il tycoon è stato eletto nonostante il partito repubblicano, e non grazie al partito repubblicano. Ottenerne il sostegno è stata una sua vittoria. Se in questa tornata dovesse perdere, si potrebbe avviare una fase di compromesso con i democratici su alcuni temi, penso in particolare a quelli dell’immigrazione e dell’integrazione. Ma non penso sia un’ipotesi realistica: in questa fase storica l’opinione pubblica è molto polarizzata, poco razionale, spesso tifosa e questo potrebbe indurre gli stessi democratici a dare battaglia su tutto”.
E se invece Trump dovesse vincere e confermare la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento?
“Ne uscirebbe chiaramente rafforzatissimo, anche in vista delle elezioni presidenziali tra due anni. In due anni le cose potranno ancora cambiare, ma diciamo che andrebbe verso una ricandidatura forte”.
Qual è il punto maggiormente a favore di Trump in questa tornata di midterm? L’economia che avanza, il caso della Corte Suprema, il pugno duro sull’immigrazione, la politica estera?
“Direi più di ogni cosa l’economia: il Pil ha ripreso a correre, l’occupazione è ai minimi storici grazie alla riforma fiscale e ai nuovi accordi commerciali con Canada e Messico, che sembrano aver favorito i lavoratori statunitensi. Il clima economico in questo momento è di grande ottimismo: secondo alcuni economisti questo ciclo potrebbe terminare prima delle prossime presidenziali, ma ad oggi il presidente porta a casa questi risultati, anche al di là dei suoi meriti”.
Da mesi su Trump aleggia anche l’ipotesi di un impeachment, per le vicende legate alle pornostar ma soprattutto al Russiagate. Se i democratici dovessero conquistare seggi, potrebbero avere i numeri per aprire la procedura? Gli converrebbe politicamente farlo?
“L’esito delle midterm potrebbe essere un passo importante, ma non è il game changer che porterebbe all’avvio della procedura di impeachment. Al momento, ciò che è stato raccolto sono anzitutto indizi, ma la “pistola fumante” che incastrerebbe Trump, ad esempio sul Russiagate, non è ancora emersa. Non pochi sono i dem che concordano con questa lettura. Inoltre vanno tenute in considerazione le implicazioni politiche e dunque l’impatto sugli assetti istituzionali che l’avvio della procedura avrebbe sul Paese in un momento di estrema polarizzazione. È certo, comunque, che un Congresso a maggioranza democratica sarebbe potenzialmente più minaccioso verso Trump rispetto all’attuale”.
Cronaca recente: come potrebbe influire il terribile attentato di Pittsburgh contro la comunità ebraica sul voto? Si ritorcerà contro Trump, amico di Israele ma allo stesso tempo sostenuto ai tempi dal KKK e fautore di un Paese dall’arma facile?
“Probabilmente i fatti di Pittsburgh non sposteranno molto e nel caso specifico il presidente non può essere certo tacciato di anti-semitismo, come dimostra lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, per esempio”.