La decisione di Joe Biden di concedere la grazia al figlio Hunter ha suscitato feroci critiche tra i repubblicani, come era più che prevedibile, ma anche sconcerto tra i democratici.
Tra questi ultimi, perfino il senatore del Colorado Michael Bennet, noto per il suo basso profilo e per la ritrosia a rilasciare dichiarazioni, non è riuscito a esimersi dall’affermare che il gesto del presidente si sarebbe configurato come un esempio della volontà di “anteporre i propri interessi personali a quelli della nazione”.
Joe Biden aveva più volte dichiarato che non avrebbe interferito con l’iter giudiziario di Hunter che, dopo aver ammesso di essere colpevole di evasione fiscale per un totale di 1,4 milioni di dollari e di aver nascosto la propria tossicodipendenza per acquistare un’arma, era stato condannato per tali reati ed era in attesa che un giudice quantificasse la pena detentiva con una sentenza prevista per la metà del mese. Ora la grazia del padre, a pochi giorni dal verdetto, cancella i crimini e mette il figlio al riparo dal carcere.
L’istituto del perdono presidenziale
Per quanto possa essere ritenuto politicamente avventato, inopportuno e discutibile, il provvedimento di Joe Biden è tutto fuorché illegittimo e men che mai si può configurare quale “abuso di potere”, come ha invece tuonato Donald Trump.
Il primo comma della sezione II dell’articolo 2 della Costituzione, infatti, attribuisce al presidente la facoltà di conferire la grazia a chiunque, oltre al diritto di commutare le sentenze, fatta eccezione per i casi di impeachment. Il suo atto è inappellabile e insindacabile, a tal punto che non è neppure previsto che debba essere fornita una qualche motivazione.
Tutti i tentativi di mettere in discussione tale prerogativa dell’inquilino della Casa Bianca sono stati rigettati dai tribunali. L’istituto del perdono presidenziale, infatti, rientra nell’ambito dei cosiddetti checks and balances, un sistema di controllo reciproco tra esecutivo, legislativo e giudiziario ideato dai costituenti per prevenire una degenerazione dispotica delle istituzioni.
Tra i suoi diversi meccanismi, questo bilanciamento tra i poteri prevede appunto che il presidente possa riformare eventuali sentenze errate della magistratura, graziando i condannati o modificando le pene adottate nei loro confronti.
È quello che ha fatto Joe Biden, ritenendo Hunter vittima di un accanimento giudiziario che avrebbe voluto colpire il figlio allo scopo di rivalersi in maniera indiretta sul padre per ragioni di natura esclusivamente politica.
Le prime applicazioni
La grazia a Hunter non rappresenta il primo perdono presidenziale controverso. Le polemiche iniziarono già pochi anni dopo l’approvazione della Costituzione federale. Nel 1795 George Washington, il primo presidente degli Stati Uniti, salvò dalla condanna a morte per tradimento Philip Vigol e John Mitchell.
I due, quattro anni prima, avevano capeggiato un’insurrezione per protestare contro l’introduzione di un’imposta federale sulla distillazione del whiskey. Secondo Washington, poiché la sollevazione era stata oramai sedata, l’esecuzione di Vigol e Mitchell avrebbe soltanto creato due martiri e riacceso focolai di rivolta.
Ma il suo gesto di clemenza apparve ad alcuni come una manifestazione di debolezza che avrebbe incentivato ulteriori sommosse e messo a repentaglio la sopravvivenza dei quasi neonati Stati Uniti.
Su questa linea, alla fine della guerra civile, nel 1865, il presidente Andrew Johnson, entrato alla Casa Bianca dopo l’assassinio di Abraham Lincoln, graziò gli esponenti della Confederazione maggiormente compromessi con la secessione degli Stati schiavisti del Sud nel 1861, compreso l’ex vicepresidente Alexander H. Stephens. La sua decisione apparve come un allineamento del presidente sulle posizioni dei ribelli all’autorità dell’Unione, dettata dal fatto che anche Johnson era un uomo del Sud, in quanto originario del Tennessee, e un ex proprietario di schiavi.
Il caso dell’ex presidente Richard M. Nixon
Il perdono più discusso fu quello concesso da Gerald Ford all’ex presidente Richard M. Nixon l’8 settembre 1974. Travolto dallo scandalo del Watergate, Nixon si era dimesso un mese prima, il 9 agosto, e Ford, che gli era subentrato alla Casa Bianca, volle evitare al suo predecessore un processo e una condanna quasi sicura che avrebbero ulteriormente dilaniato un Paese già spaccato tra colpevolisti e innocentisti.
Pensata per chiudere una pagina incresciosa della storia degli Stati Uniti e per superare le lacerazioni interne alla società americana, la decisione di Ford fu considerata da molti l’esito di un torbido accordo, del quale però nessuno ha mai trovato un riscontro.
La legge sulla successione alla Casa Binaca stabilisce che il vicepresidente sostituisca ex officio il presidente quando quest’ultimo non può più esercitare le proprie funzioni per morte, destituzione, dimissioni o altro impedimento. Fu questo il caso del passaggio delle consegne da Nixon a Ford.
In precedenza, Nixon aveva nominato Ford come proprio vice in sostituzione di Spiro Agnew, che era stato eletto alla vicepresidenza nel 1968 ed era stato confermato nel 1972, ma aveva rinunciato all’incarico nel 1973, in seguito a un precedente scandalo.
Tuttavia, secondo una lettura cospirativa, quando il decorso del Watergate aveva iniziato a far presagire l’impeachment di Nixon, il presidente avrebbe designato Ford per rimpiazzare Agnew, schiudendogli di fatto le porte della Casa Bianca, in cambio dell’impegno di Ford a dargli la grazia e a salvarlo quindi dalla prigione, una volta che si fosse insediato al suo posto nello Studio Ovale.
Grazie disgraziate
Altri perdoni presidenziali furono oggetto di dure contestazioni. Il senatore repubblicano Barry Goldwater stigmatizzò la grazia concessa nel 1977 dal democratico Jimmy Carter agli oltre 200.000 renitenti alla leva (ma non ai disertori) che erano stati coscritti per la guerra nel Vietnam come “la cosa più indegna che un presidente abbia mai fatto”.
Ma la lista dei perdoni opinabili è lunga, anche se limitata ai casi dell’ultimo trentennio. Nel 1992 George H.W. Bush graziò l’ex segretario alla Difesa Caspar Weinberger, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Robert C. McFarlane, l’ex sottosegretario di Stato Elliott Abrams e alcuni funzionari della CIA, tutti protagonisti dello scandalo che, durante l’amministrazione di Ronald Reagan, aveva portato a finanziare illegalmente la guerriglia dei Contras in Nicaragua con fondi neri ottenuti dalla vendita, altrettanto illecita, di armi all’Iran.
Nel suo ultimo giorno alla Casa Bianca, il 20 gennaio 2001, Bill Clinton perdonò Marc Rich, latitante in Svizzera in seguito a un’incriminazione per evasione fiscale e per frodi postali, dopo che la sua ex moglie aveva versato cospicue somme per sovvenzionare le campagne elettorali del partito democratico e perfino la costruzione della biblioteca presidenziale dello stesso Clinton.
Nel 2007 George W. Bush cancellò la condanna a 31 mesi di carcere inflitta a Lewis Libby, l’ex capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney, colpevole di aver rivelato l’identità di un’agente della CIA sotto copertura, Valerie Plame, allo scopo di screditarne il marito, Joseph Wilson IV, che aveva dimostrato la falsità dell’ipotesi, sfruttata invece da Washington per giustificare l’invasione dell’Iraq nel 2003, secondo cui il regime di Saddam Hussein si sarebbe procurato uranio in Niger per riavviare un programma di armamento nucleare.
Nel 2017 Donald Trump perdonò Joe Arpaio, l’ex sceriffo della contea di Maricopa in Arizona, incriminato per abuso di potere e violazione dei diritti degli immigrati irregolari finiti nelle sue mani. Tre anni più tardi The Donald graziò il suo primo consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn e l’ex direttore della sua campagna per la Casa Bianca, Paul Manaford, giudicati colpevoli di falsa testimonianza e intralcio alla giustizia nell’ambito dell’inchiesta condotta dal procuratore speciale Robert Mueller sulle interferenze russe nelle elezioni presidenziali del 2016.
Parenti graziati
Neppure il perdono di un familiare – di sangue o acquisito – costituisce una novità. Clinton concesse la grazia al fratellastro Roger Clinton Jr., condannato per possesso e spaccio di droga. Roger aveva già scontato il periodo di carcerazione comminatogli, ma il provvedimento di clemenza del presidente servì comunque a cancellare questi precedenti e gli ripulì la fedina penale, consentendogli tra l’altro di riacquistare i diritti politici.
Trump compì un’azione analoga nei confronti del suocero Charles Kushner, reo di evasione fiscale e di intimidazione di un testimone in un processo, la stessa persona che il tycoon ha designato quale prossimo ambasciatore degli Stati Uniti in Francia.
Familismo presidenziale
Tragedie familiari hanno costellato la vita di Joe Biden. La prima moglie, Neilia, e la figlioletta di un anno, Naomi, persero la vita in un incidente stradale nel 1972. Un altro figlio, Beau, che rimase solo ferito, morì di cancro nel 2015 ad appena 46 anni.
Dopo questi drammi personali, è umanamente comprensibile che il presidente abbia voluto proteggere Hunter, che rischiava una condanna a oltre venticinque anni di prigione. Inoltre, Hunter si sarebbe ritrovato soggetto alla giurisdizione di un dipartimento di Giustizia riempito di accoliti di Trump che – a partire dalla futura titolare del dicastero, Pam Bondi, e dal possibile nuovo direttore dell’FBI, Kash Patel – sono stati nominati da The Donald con il quasi esplicito mandato di dare corso a vendette politiche contro gli avversari del tycoon, tra i quali spicca proprio il presidente uscente.
La grazia a Hunter, però, suona pure come una rivalsa personale di Joe Biden, incurante delle ricadute negative del suo gesto sul partito democratico. Il presidente non avrebbe voluto rinunciare alla candidatura alla Casa Bianca e si è sentito tradito dagli esponenti del proprio partito che lo hanno costretto a ritirarsi alla fine di luglio.
Joe Biden si è piegato alle pressioni in nome dell’interesse nazionale per impedire una seconda vittoria di Trump. Per lo stesso motivo, con l’intento di non contribuire a portare voti a The Donald, durante la campagna elettorale il presidente ha sempre negato di voler concedere la grazia a Hunter.
Questo deterrente, però, è cessato nel momento in cui il tycoon ha conseguito un nuovo mandato alla Casa Bianca, tanto più che Biden era – e resta tutt’ora – convinto che, a differenza di Kamala Harris o di un qualunque altro candidato democratico, lui avrebbe potuto battere The Donald, come aveva già fatto nel 2020.
In altre parole, le motivazioni personali sono prevalse sull’interesse nazionale soltanto dopo che quest’ultimo è venuto meno, con la complicità – secondo Biden – dei dirigenti del suo stesso partito. Dopo che, a suo parere, gli sarebbe stato impedito di prevenire il successo di Trump mantenendo la propria candidatura, il presidente ha voluto evitare che, alla débâcle elettorale ormai consumatasi in modo irreparabile, si aggiungesse la disfatta personale e familiare rappresentata dalla carcerazione di Hunter, un esito che, fino al 5 novembre, sembrava invece disposto ad accettare con rassegnazione di statista per non precludere il superiore obiettivo della sconfitta del tycoon.
Cospirazioni fantomatiche
Il provvedimento di grazia a beneficio di Hunter riguarda non solo i reati per i quali è stato condannato, ma anche quelli che “potrebbe aver commesso o ai quali potrebbe aver partecipato” tra il 1° gennaio 2014 e il 1° dicembre 2024.
In questo modo, il presidente ha messo il figlio al riparo da richieste di ulteriori incriminazioni che avrebbero potuto essere avanzate da un dipartimento di Giustizia che si prospetta asservito ai voleri di Trump.
L’ampiezza della formula, però, ha dato adito a fantasiose illazioni. In particolare, c’è chi sostiene che in questo modo Joe Biden avrebbe voluto proteggere se stesso più ancora del figlio. Da anni l’entourage di The Donald ha fatto circolare la voce che Hunter avrebbe agito per conto del padre in presunti maneggi d’affari, in particolare in Ucraina, oppure sarebbe stato da lui illegittimamente coperto, quando il genitore era il vicepresidente di Barack Obama.
Pertanto, perdonando il figlio, il presidente avrebbe in realtà voluto impedire l’apertura di inchieste a proprio carico. Se questo fosse stato il vero obiettivo di Joe Biden, la grazia a Hunter sarebbe stata uno strumento deleterio. L’immunità ottenuta dal padre, infatti, impedisce a qualsiasi procuratore federale di muovere accuse al figlio per fatti precedenti al 1° dicembre scorso.
Pertanto, se Hunter fosse chiamato a testimoniare contro il padre in ipotetiche indagini sulle attività di Joe Biden nell’ultimo biennio in cui è stato vicepresidente, non potrebbe rifiutarsi di farlo appellandosi al quinto emendamento della Costituzione – il comportamento tipico degli imputati reticenti a cui ci hanno abituato anche i court movies statunitensi – cioè non potrebbe avvalersi della circostanza che, fornendo informazioni agli inquirenti, rischierebbe di autoincriminarsi.
I possibili effetti della grazia a Hunter
Corrisponde alla realtà quanto affermato da Joe Biden, ossia che, negli Stati Uniti, generalmente non si viene sbattuti in cella per non aver pagato le imposte quando si versa la somma evasa con gli interessi, come ha fatto Hunter, e che le dichiarazioni mendaci rese per l’acquisto di armi sono raramente oggetto di incriminazione quando pistole e fucili non vengono poi adoperati per commettere crimini.
Tuttavia, sebbene il presidente abbia presentato il proprio provvedimento come un gesto riparatore nei confronti di torti subiti dal figlio, il suo atto è gravido di conseguenze. Da un lato, contribuisce a minare la fiducia nel sistema giudiziario statunitense e nell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge americana, sia che Hunter appaia un privilegiato grazie alla presenza del padre alla Casa Bianca, sia che risulti invece una vittima su cui si sarebbero abbattuti gli strali destinati al genitore.
Anche il Cremlino ha avuto l’opportunità di farsi beffe della “caricatura della democrazia” statunitense. Dall’altro lato, scagliarsi contro una giustizia politicizzata comporta avallare, con tutta l’autorevolezza del capo dell’esecutivo, un’argomentazione che, sull’altro fonte partitico, Trump potrà strumentalizzare per concedere la grazia ai suoi sostenitori condannati, imputati o semplicemente accusati per aver assaltato il Campidoglio il 6 gennaio 2021, presentando pure loro come innocenti angariati da una magistratura indotta a perseguirli dagli interessi politici degli avversari del tycoon.
Per la stessa ragione, acquista credibilità la narrazione secondo cui sarebbe The Donald stesso un perseguitato politico, con i suoi 91 capi d’imputazione (in parte archiviati dopo la rielezione alla presidenza) e una condanna penale per falsificazione di documenti contabili.
Così, il presidente che si era proposto di salvare gli Stati Uniti e il mondo dal ritorno di Trump al potere lascia la Casa Bianca al tycoon, finendo implicitamente per convalidare le tesi cospirative sulle quali The Donaldha fondato almeno in parte il proprio consenso.
. . .
Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).
Libri:
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle
Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle