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Universo e materia oscura, i frattali al centro del dibattito scientifico sano e costruttivo

Un dibattito dei primi decenni degli anni 2000, con al centro la teoria dell’Universo frattale – conclusosi a favore della teoria classica della distribuzione uniforme della materia – fornisce un esempio di come e dove dovrebbe avvenire un dibattito scientifico propriamente detto

Universo e materia oscura, i frattali al centro del dibattito scientifico sano e costruttivo

Nei primi anni 2000, una teoria del fisico Luciano Pietronero, dell’Istituto di Sistemi Complessi dell’università La Sapienza di Roma, ipotizzava che la distribuzione della materia nelle galassie non fosse continua, ma seguisse la cosiddetta geometria frattale. La prima mappatura della materia oscura – l’ipotetica componente della materia che non emetterebbe radiazione elettromagnetica – operata da Richard Massey del California Institute of Technology e pubblicata sulla rivista scientifica Nature, sembrava dare ragione al fisico italiano. “La materia oscura non è altro che un rattoppo che giustifica le teorie – sosteneva infatti Pietronero – i frattali chiariscono molto meglio questi fenomeni”.

Frattali? Ma di cosa si parla? Spieghiamolo: un frattale è un oggetto matematico molto particolare, dalle proprietà sbalorditive. La prima è quella di non avere una dimensione intera, ma frazionaria. La seconda è quella di assomigliare a se stesso ad ogni scala di rappresentazione, anche infinitamente piccola (omotetia interna). Paradossi? No, concetti – per nulla astratti – che hanno molto a che vedere con la realtà. Basta osservare da vicino la neve fresca che si deposita al suolo, un broccolo romanesco (brassica oleracea), una felce, i rami degli alberi o gli alveoli polmonari. Quello che manca è la perfetta regolarità e il fatto che l’ingrandimento non possa proseguire all’infinito, per il resto i frattali approssimano la forma di questi oggetti molto meglio della geometria tradizionale.

Il padre della geometria frattale Benoît Mandelbrot usava rispondere nella maniera seguente, alla domanda “Quanto misurano le coste della Gran Bretagna?”: “Dipende dalla lunghezza dello strumento di misura”. E, in effetti, ogni volta che si riduce la lunghezza dello strumento di misura scelto, la lunghezza della costa aumenta, perché si può tenere conto di sinuosità sempre più piccole. Diversamente dalle curve della geometria euclidea, che quando vengono ingrandite diventano linee rette, le pieghe frazionarie delle linee costiere, delle montagne e delle nuvole non scompaiono quando ingrandiamo la scala. Se la lunghezza di una linea costiera viene misurata con regoli di misura sempre più corti, la sua lunghezza cresce indefinitamente. Si pensi, invece, alla tangente di una curva in ogni suo punto: localmente, cioè in un intorno sufficientemente piccolo di quel punto, la curva può essere approssimata alla sua tangente. Nel caso di un sistema frattale, non si ha una regolarizzazione della struttura a nessun ordine di grandezza, poiché la sua complessità e la sua regolarità non variano con la scala. Questa grande irregolarità non può quindi essere descritta mediante i tradizionali metodi matematici.

A fare i primi studi sui frattali sono stati personaggi del calibro di Karl Weierstraß (1872), considerato il capostipite dell’analisi matematica moderna, seguiti dalle ricerche dell’italiano Giuseppe Peano (1890) e, nel Novecento, dal polacco Wacław Sierpiński e dal francese Gaston Julia, oltre che da Koch e Hausdorff. A coniare il nome “frattale” fu – solo nel 1975 – il già citato Mandelbrot. Il matematico francese non riuscì a trovare una risposta alla domanda “Quanto misurano le coste della Gran Bretagna?”, ma cercò di definire un numero frazionario (compreso tra 1 e 2) che identificasse il frastagliamento della costa. La geometria frattale era sicuramente un argomento “disruptive” (di rottura con le teorie del passato), ma non deve esser visto come una sorta di nuovo ordine matematico attraverso il quale gli studiosi dell’epoca intendevano riscrivere il sapere scientifico. Piuttosto era uno strumento in grado di mostrare come la geometria euclidea non riuscisse a rappresentare determinati aspetti della realtà, ma al tempo stesso, fornisse ai matematici un nuovo metro per misurare ed esplorare la natura.

Per creare un frattale basta un algoritmo ricorsivo

Nel 1906, il matematico svedese Helge Von Koch creò una figura geometrica dalle curiose caratteristiche: la lunghezza del perimetro di tale oggetto era infinita, ma circoscriveva un’area finita. Nulla di strano per la matematica dell’epoca, che poteva vantare diversi tipi di apparenti paradossi matematici, figli delle intuizioni di Georg Cantor. Ad esempio, l’insieme che porta il suo nome, si costruisce in modo ricorsivo partendo da un segmento lungo una unità di misura e rimuovendo ad ogni passo il segmento centrale da 1/3 a 2/3 di quella lunghezza. L’insieme dei punti che non vengono mai rimossi da questo procedimento sono tanti quanti ne contiene l’intervallo iniziale e – sembra incredibile, ma è così – è possibile dimostrarlo. Come è possibile dimostrare, attraverso una semplice corrispondenza biunivoca, che i punti di un semicerchio finito sono tanti quanti quelli di una linea retta infinita. La curva di Koch si ottiene invece ripetendo un’unica istruzione (algoritmo ricorsivo): si prende un triangolo equilatero e si costruisce sulla terza parte di ogni lato presente, un nuovo triangolo che avrà dimensioni di un terzo inferiori rispetto al precedente. I lati del triangolo così costruito saranno inizialmente 3, poi 12, quindi 48 e così via. La lunghezza del perimetro di questa specie di fiocco di neve, sarà data da 3 x 4/3 x 4/3 x 4/3 fino a infinito. Eppure l’area della figura così ottenuta rimarrà minore dell’area del cerchio circoscritto al triangolo originario, ergo una linea di lunghezza infinita delimitata da un’area finita!

Mandelbrot nel 1977 riuscì a dimostrare che la curva che delinea la figura geometrica di Koch è tanto complicata da rendere impossibile considerarla una semplice linea monodimensionale. Ma non lo è abbastanza per essere considerata un piano bidimensionale. Utilizzando la definizione di Hausdorff, Mandelbrot calcolò l’esatta dimensione della curva di Koch: log 4 / log 3 = 1,261859507143… e quindi di poco superiore a 1. Tra il 1978 e il 1979, Mandelbrot era impegnato nello studio di un particolare problema matematico: trovare il luogo geometrico dei punti del piano di Gauss per i quali una determinata successione di numeri complessi fosse limitata, in funzione dei punti di partenza. Armato di un computer dell’Università di Harvard, riuscì finalmente a creare una rappresentazione grafica sul display monocromatico che aveva a disposizione. Tale oggetto assomigliava ad un cardioide ed era situato nelle immediate vicinanze dell’origine degli assi del piano complesso. Osservato meglio negli studi della IBM con una risoluzione e una precisione di calcolo maggiori, vennero alla luce le sue eccezionali caratteristiche: in particolare, il bordo dell’insieme si dimostrò una vera miniera di sorprese, mostrando una complessità stupefacente. Ad ingrandimenti maggiori, il cardioide si presentò costituito da fitti grovigli di bolle, tentacoli, forme che ricordavano cavallucci marini, oltre che interi piccoli insiemi sparsi un po’ ovunque. Interessante era quindi scoprire se le isole erano tali oppure collegate al corpo principale da qualche sottile percorso di punti appartenenti all’insieme. La verifica arrivò poco più tardi dai matematici Adrien Douady e John H. Hubbard, due dei più importanti personaggi (Hubbard è ancora in vita) che la teoria del Caos possa annoverare. Con i moderni computer si possono analizzare porzioni notevolmente maggiori (in termini di infinitesimi) di piano rispetto ai primi esperimenti, ma un’infinita parte dell’insieme rimarrà comunque inaccessibile in quanto esiste un limite invalicabile costituito dalla precisione della macchina: il numero di cifre che è in grado di gestire. Questo è uno dei motivi per cui, a ragione, l’insieme di Mandelbrot è ritenuto l’oggetto più complesso della matematica di tutti i tempi.

L’uso dei frattali per descrivere o modellare l’universo

Abbiamo spiegato come i frattali siano oggetti geometrici che appaiono uguali a qualsiasi scala, sia che si ingrandisca, sia che si riduca. Gli astronomi, sondando porzioni sempre più grandi del cosmo, sono rimasti sorpresi nel trovare la materia raggruppata allo stesso modo, ma su scale sempre più grandi. Questa distribuzione della materia, simile a quella di una matrioska russa, li ha portati a chiedersi se l’universo sia un frattale. Uno dei primissimi studi sull’ipotesi di distribuzione delle galassie con uno schema frattale è stato fatto proprio da Luciano Pietronero e il suo team nel 1987, mentre l’approfondimento di cui si parla a inizio articolo, e che ha generato il dibattito costruttivo tra gli scienziati, è di circa un decennio posteriore. Si tratta di una conferma della teoria stessa di Pietronero, operata grazie alla disponibilità di una catalogazione di galassie più ampia. Tra i principali “avversari” di questa teoria, c’era il gruppo di astronomi dell’Università di New York guidato da David Hogg. Secondo Hogg la teoria dei frattali “crea più problemi di quanti non ne risolva”, a cominciare dal fatto che andrebbero ripensate tutte le leggi fondamentali della cosmologia. Il dibattito ha trovato terreno fertile sulla rivista “New Scientist“, dove ciascuno ha potuto argomentare le proprie posizioni, contribuendo all’arricchimento della collettività, in termini di nuove informazioni e collegamenti tra di esse. Ad oggi, pur rimanendo dubbi sulla “materia oscura”, la teoria classica della distribuzione uniforme della materia sembra essere stata confermata, ma è stato possibile arrivare a questa conclusione proprio grazie allo svolgimento del dibattito a questo livello. Chiunque non sia abituato agli scenari del mondo della ricerca potrebbe rimanere sorpreso dallo svolgimento del confronto in queste modalità, soprattutto avendo come metro di paragone le diatribe televisive che nascono inutilmente su molti temi legati alla ricerca medica. A volte il dissenso esiste solo sugli organi di informazione di massa oppure si genera – nei luoghi meno adatti – prima ancora che gli scienziati possano essere arrivati ad una conclusione, in un ambito più idoneo. Da questo punto di vista, si può notare che la prima mappatura della materia oscura in una parte dell’universo, che sembrava dare ragione a Pietronero, non ha fatto sbilanciare il fisico italiano, anzi: “io aspetterei prima di dare sentenze definitive”, sono state le sue parole di fronte alla pubblicazione della mappatura. “Altre prove in un senso o nell’altro verranno nei prossimi mesi, quando nuovi dati verranno resi noti”. Queste sono state le sue prime esternazioni.

La prima comparsa dei frattali in cosmologia è probabilmente avvenuta con la “teoria dell’universo inflazionario caotico auto-riproduttivo eterno” proposta dal fisico russo Andrei Linde, nel 1986. Quando si parla di “inflazione” in cosmologia, s’intende l’ipotesi che l’universo, in una fase precocissima della sua esistenza, abbia attraversato un’espansione estremamente rapida, dovuta a una grande pressione negativa. Diversi matematici e fisici, nel corso degli anni, hanno provato a sostenere tanto la teoria di un universo frattale, irregolare e grumoso, quanto quella di un universo omogeneo e isotropo (uniforme) e non solo, perché si è provato anche a conciliare i due modelli, prendendoli in considerazione su scale differenti. Le moderne teorie del Big Bang prevedono che il nostro universo “locale” abbia iniziato ad esistere una piccola frazione di secondo dopo il Big Bang stesso, mentre il resto dell’universo si sia continuato ad espandere con un tasso di crescita esponenziale. La parte osservabile del nostro universo sarebbe quindi solo una regione, una tasca, particolarmente ospitale, in cui l’inflazione è terminata e sono nate stelle e galassie. Globalmente il nostro universo potrebbe essere come un frattale infinito, con un mosaico di diversi universi a tasche, separati da un oceano in inflazione. Le leggi locali della fisica e della chimica possono differire da un universo a tasca all’altro, che – insieme – formerebbero un multiverso. Per Stephen Hawking però questa descrizione dell’inflazione eterna, come teoria del Big Bang, sarebbe sbagliata: “il problema con la descrizione usuale dell’inflazione eterna – sosteneva il cosmologo britanico – è che assume l’esistenza di un universo di fondo che evolve secondo la teoria della relatività generale di Einstein e tratta gli effetti quantistici come piccole fluttuazioni intorno a questo. Tuttavia, la dinamica dell’inflazione eterna cancella la separazione tra fisica classica e quantistica. Di conseguenza, la teoria di Einstein collassa nell’inflazione eterna. Prevediamo che il nostro universo, alle scale più grandi, sia ragionevolmente liscio e globalmente finito. Quindi non è una struttura frattale.”

In sostanza, l’universo sarebbe simile ad un frattale fino a molte scale di grandezza, ma ad un certo punto, questa forma matematica crolla. Non ci sarebbero più le matrioske russe. La conferma arriverebbe dall’indagine chiamata “WiggleZ Dark Energy Survey“, guidata da una giovane dottoranda australiana, Morag Scrimgeour e dai suoi colleghi dell’Università dell’Australia Occidentale di Perth. Utilizzando il telescopio anglo-australiano, i ricercatori hanno individuato le posizioni di 200.000 galassie che riempiono un volume cubico di 3 miliardi di anni luce su un lato. Si tratta della struttura dell’universo a scale più grandi di qualsiasi altra indagine precedente. Gli studiosi hanno scoperto che la materia è distribuita in maniera estremamente uniforme in tutto l’universo, su scale estremamente grandi, con pochi segni di pattern simili a quelli frattali. In un certo senso si potrebbe dire che l’universo assomigli molto alla neve: composto sicuramente da fiocchi frattali, ma che passa a un mare uniforme di bianco mano a mano che ci si allontana.

Ancora una volta soffermiamoci sui contributi dati dai singoli ricercatori a questo livello e sulle conclusioni globali alle quali siamo potuti arrivare. I partecipanti al dibattito scientifico hanno difeso tenacemente la propria posizione, ma sempre e solo con i dati e con la lettura più appropriata di essi. Nessuno ha cercato di imbrogliare e nessuno si è sottratto alla cosiddetta “revisione dei pari“. Il luogo scelto per il confronto è stato quello più corretto, non si è tentato di creare tifoserie parlando ai non addetti ai lavori e nessuno ha osato trasgredire epistemicamente il proprio campo di esperienza e di studio. In genere è così che dovrebbe avvenire un confronto scientifico. Qualunque altro tipo di confronto non è un dibattito utile, ma una semplice gara dialettica, un teatro delle parole, dove prevale il sofisma più orecchiabile o quello più elegante e non l’argomento più solido. Contrariamente a quanto succede in un dibattito ordinario, in un sano e costruttivo dibattito scientifico non è sufficiente enunciare un’ipotesi per avere diritto di parola, ma si richiede di farlo in un modo tale che questa possa essere pesata e valutata con il metodo scientifico. Non esiste principio di autorità o di democrazia, conta solo il metodo, quello scientifico, cioè la possibilità di giungere ad una tesi – una volta formulata un’ipotesi – attraverso una procedura logico-matematica e/o l’analisi dei fatti sperimentali.

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