Altro che stop immigrazione: la sfida, casomai, è intercettare quella “di qualità”. Nel 2100, secondo la ricerca “L’Italia e la sua reputazione: l’università”, presentata da Intesa Sanpaolo e realizzata dall’università Federico II di Napoli, la popolazione mondiale con formazione post-secondaria (quindi post-diploma) raggiungerà i 3 miliardi, e già nel 2040 sarà significativamente più numerosa rispetto agli 800 milioni attuali.
Per questo motivo, secondo Domenico Asprone, docente e coordinatore della ricerca, “l’Italia avrebbe tutto l’interesse a migliorare la sua reputazione e puntare ad intercettare questa domanda di formazione, che arriverà soprattutto dai Paesi in via di sviluppo, in particolare da Far East, Africa e America Latina”.
In che modo? “Innanzitutto con la soluzione più ovvio: aumentare le risorse. Poi internazionalizzando il recruitment degli studenti, in collaborazione con il Governo ma anche con le imprese. Paesi come Uk e Usa sono già avvantaggiati perché hanno numerosi campus nei Paesi con più domanda. E infine sfruttando il brand Italia, che nonostante tutto rimane il primo al mondo come attrattività culturale”.
Ma ad oggi, come siamo messi? Pur avendo un tasso di istruzione terziaria più bassa rispetto ai nostri partner europei (in Italia nel 2016 c’erano 1,8 milioni di studenti universitari, meno della Spagna con 1,9 milioni, di Uk e Francia con 2,4 milioni e della Germania con oltre 3 milioni), il livello dei nostri atenei non sembra poi così scadente: se è vero che la ricerca deve arrivare a considerare le 1.000 migliori università al mondo (dunque il top 5%, su una stima di 20.000 enti complessivi nel mondo), perché nella top 100 non figura nessuna università italiana, è altresì vero che il 40% degli atenei “generalisti” del nostro Paese (escludendo quindi quelli monodisciplinari come ad esempio Bocconi, Luiss, Politecnico, che rientrano in classifiche di specialità) è incluso tra i 1.000 migliori a livello mondiale.
E considerando la Top 1.000, l’Italia risulta essere addirittura al primo posto come percentuale di università presenti, davanti al Regno Unito e pure agli Stati Uniti (40% contro 8%). Questo nonostante da noi le università siano anche numericamente poche, rispetto agli abitanti: meno della metà rispetto a Francia, Germania, Regno Unito e circa un terzo (sempre in proporzione) rispetto agli Stati Uniti.
Un gap che nasce dall’assenza di risorse: l’Italia, secondo la ricerca, destina meno dell’1% del proprio Pil al sistema universitario, risultando quasi fanalino di coda a livello mondiale. Peggio di noi fanno solo, tra i Paesi citati, Lussemburgo, Indonesia, Irlanda e Ungheria, mentre fa meglio la Grecia, investe quasi l’1,3% la Spagna, quasi l’1,5% la Francia, intorno al 2,5% Canada, Cile e Usa.
“La ricerca – ha commentato il presidente di Intesa Sanpaolo, Gian Maria Gros-Pietro – presenta una situazione che in realtà non ci sorprende, visto che come banca lavoriamo con oltre 100 atenei in tutto il territorio nazionale e ne conosciamo le qualità. Quasi un’università italiana su due è tra le migliori mille al mondo: questo fa capire che il potenziale è alto e bisogna investirvi per aumentare la competitività del nostro Paese”.