Il sistema bancario italiano sta vivendo in questi giorni una nuova primavera ma il rinnovato protagonismo delle banche italiane, di cui l’Ops di Unicredit è la punta dell’iceberg, covava da tempo e le sue origini vanno rintracciate nella politica monetaria della Bce che si è sviluppata in risposta all’emergenza pandemica. Ne è convinto il professor Marcello Messori, uno dei più brillanti economisti italiani, studioso da sempre del sistema bancario e attualmente docente all’European University Institute di Firenze. L’intervista che ha concesso a FIRSTonline aiuta a capire che cosa sta realmente succedendo in questi giorni tra le banche italiane e perché a livello europeo, e non solo italiano, c’è una forte esigenza di concentrazione e consolidamento delle banche, in cui il risparmio gestito assume sempre di più un ruolo centrale.
Professor Messori, prima il blitz di Unicredit su Commerzbank, poi la scalata del Banco Bpm ad Anima Holding e al Monte dei Paschi e infine l’Ops di Unicredit al Banco Bpm: un periodo così effervescente delle banche italiane non si vedeva da mezzo secolo. Come si spiega questo dinamismo e qual è il filo rosso, se c’è, che tiene insieme l’attivismo delle banche italiane in questo momento?
“Ancor più di molti altri settori bancari dell’Euro area (Ea), le banche italiane hanno saputo sfruttare le opportunità offerte dalla politica monetaria e dagli andamenti di mercato prima e dopo lo shock pandemico. Già le iniziative non convenzionali della Banca centrale europea (Bce) avevano consentito a molte banche italiane di superare la loro grave crisi alla metà degli anni Dieci, accedendo a rifinanziamenti a tassi prossimi allo zero oppure – addirittura – negativi e acquistando titoli del debito pubblico di paesi fragili. Questi titoli, che erano largamente assorbiti dagli annunciati acquisti della Bce nel mercato secondario e incorporavano – quindi – bassi rischi, garantivano modesti ma positivi tassi di rendimento (comunque maggiori dei costi di rifinanziamento). Durante la pandemia, l’accentuarsi delle politiche monetarie ultra-espansive ha spostato in territori ancor più negativi i tassi di interesse sui rifinanziamenti della Bce e ha, così, ampliato le opportunità di carry trade bancario sui titoli pubblici specie nei paesi più fragili. Inoltre, gli incrementi della ricchezza finanziaria allocata in attività liquide da parte di molte famiglie italiane e le garanzie pubbliche sui finanziamenti alle imprese hanno creato altre opportunità di redditività per le nostre banche”.
“L’uscita dalla pandemia ha alimentato eccessi di inflazione e conseguenti aumenti nei tassi di interesse di policy, che si sono sommati a una forte incertezza macroeconomica e a comportamenti prudenziali da parte dei detentori di ricchezza. Nell’Ea, le banche hanno potuto così sfruttare una nuova e diversa opportunità di carry trade: raccogliere liquidità sotto forma di depositi o di altre passività a breve termine, remunerata a tassi molto bassi, e accrescere le proprie riserve non-obbligatorie presso la Bce, ottenendo un tasso di remunerazione che si è attestato a lungo al 4% ed è tuttora molto elevato. Inoltre, sono rimasti spazi per la gestione della ricchezza delle famiglie e per l’acquisto di titoli del debito pubblico. In Italia, i maggiori gruppi bancari e molte banche di medio-piccola dimensione hanno efficacemente sfruttato tali nuove opportunità. Fatto è che oggi i sei maggiori gruppi bancari italiani hanno tassi di rendimento ben superiori alla media europea”.
A fronte di questa base di partenza, la riduzione dei tassi della Bce può offrire alle banche italiane ulteriori occasioni di crescita?
“È ormai palese che l’economia dell’Ea necessita di una profonda ristrutturazione da finanziare, oltre che con risorse pubbliche, mediante crediti e – soprattutto – strumenti di lungo termine offerti in mercati bancari e finanziari davvero europei. Unendosi al graduale ritorno a politiche monetarie espansive, ciò offre alle banche europee opportunità di crescita e di nuova redditività mediante l’utilizzo di fabbriche-prodotto che sappiano mobilizzare la ricchezza delle famiglie, offrendo attività finanziarie conformi ai loro profili di rischio, e mediante servizi di investimento da offrire a intermediari non bancari per i finanziamenti di nuove attività produttive delle imprese. Questi compiti, che le banche europee sono chiamate a svolgere con prospettive di profitto, richiedono accrescimenti dimensionali e affinamenti organizzativi; inoltre, essi impongono il superamento delle attuali segmentazioni locali dei mercati finanziari. Di qui, l’esigenza di avviare una fase di forte concentrazione e di consolidamento bancari a livello europeo. Senza un consolidamento bancario non si apriranno spazi per altri intermediari finanziari non-bancari di caratura europea”.
“Dovendo superare varie e costose barriere (normative, istituzionali, di mercato), è comprensibile che i primi passi di tale fase privilegino aggregazioni bancarie nazionali o fra attori di paesi limitrofi. In questo senso, tutte le operazioni che lei ha menzionato (più altre in fieri, quali i possibili accordi fra Generali e Natixis nel risparmio gestito) fanno parte di uno stesso disegno e vanno lette non in chiave nazionale ma europea. La forte redditività delle banche italiane e la persistente e forte segmentazione del mercato nazionale spiegano il loro attuale protagonismo”.
Le mire di Banco Bpm e di Unicredit su Anima, dopo l’Opa di Banca Generali su Intermonte e l’acquisizione in fieri di Axa Asset management da parte di Bnp Paribas in Francia sembrano evidenziare una corsa al consolidamento del risparmio gestito forse come risposta alla riduzione dei ricavi dell’attività bancaria tradizionale per il calo dei tassi della Bce: qual è la sua valutazione?
“Penso che, da vari anni, i gruppi bancari più efficienti abbiano compreso che, anche nell’Ea, la loro competitività di lungo periodo si gioca su integrazioni verticali che portino a internalizzare le fabbriche-prodotto. Il cosiddetto “Danish compromise” incentiva tale internalizzazione riguardo alle fabbriche assicurative. Gran parte del risparmio gestito è, da tempo, incorporato nelle banche. Ciò, però, non basta. Come ho cercato di dire, si tratta di mobilizzare un’ingente ricchezza finanziaria della Ue che è oggi allocata in attività non fruibili (anche indirettamente) per finanziamenti delle riorganizzazioni produttive. Il risparmio gestito, che include prodotti finanziario-assicurativi, può essere il primo passo per associare il soddisfacimento dei profili di rischio dei detentori di ricchezza all’offerta di servizi finanziari per intermediari attrezzati al finanziamento di attività produttive innovative. Al riguardo, un’adeguata dimensione dei gruppi bancari risulta cruciale. Per di più, lei ha ragione nel sottolineare che l’aspettativa di una discesa dei tassi di interesse di policy accelera il processo di integrazione e concentrazione perché apre sostanziosi spazi per incrementi di redditività bancaria anche nel breve termine”.
Veniamo alla più stringente attualità: come giudica l’Ops di Unicredit su Banco Bpm e quale pensa che sia l’obiettivo centrale della banca di Orcel? Gli interessa di più il Banco Bpm o Anima?
“È indubbio che Unicredit soffra ancora dell’eredità della “gestione Mustier” che aveva puntato sulla redditività di breve termine, sacrificando tutte le fabbriche-prodotto della banca e riducendo la peculiare e positiva proiezione europea del gruppo. Ciò aveva anche determinato gravi scompensi e inefficienze organizzative. La nuova gestione ha finora privilegiato la ricomposizione della banca e ha sfruttato le condizioni favorevoli e contingenti di redditività, di cui ho già parlato. Tuttavia, se oggi la sfida europea si pone nei termini che ho cercato di definire, è evidente che Unicredit necessita di un rafforzamento delle sue fabbriche-prodotto interne e di un ulteriore salto dimensionale. Per giunta, se avessi ragione nel collocare il risparmio gestito in senso lato al crocevia del processo di unificazione dei mercati finanziari europei, emergerebbe un legame più forte di quanto si potrebbe a prima vista pensare fra fabbriche-prodotto e presenza territoriale. Gestione della ricchezza, finanziamenti e altri servizi alla clientela sono fortemente legati. Di qui un rinnovato interesse per le reti di distribuzione anche tradizionali.
Al riguardo, pur avendo sede legale a Milano, Unicredit è poco presente nelle aree economiche cruciali del Paese (Lombardia e Veneto) tanto da detenere quote di mercato inferiori non solo a quelle di Banca Intesa ma anche a quelle di Bpm. Alla luce di tali considerazioni, penso che Unicredit sia interessato tanto a Bpm quanto ad Anima. Resta però un interrogativo”.
Quale, professore?
“Per quanto è dato sapere, i termini dell’Offerta pubblica di scambio (Opv) appaiono del tutto inadeguati per convincere all’adesione la maggioranza assoluta degli azionisti di Bpm e, a maggior ragione, il 67% (ossia la maggioranza qualificata) di questi azionisti. Prevedere una ricapitalizzazione massima di Unicredit per 10,1 miliardi di euro così da scambiare lo 0,175 delle sue azioni contro un’azione di Bpm riconosce un premio troppo esiguo (e già assorbito dalle variazioni nelle quotazioni di mercato) ai proprietari di Bpm. Nasce quindi il dubbio che, al di là di quanto affermato dall’amministratore delegato di Unicredit, l’Opv su Bpm possa configurarsi non come un’operazione di mercato bensì come il tentativo di costruire un presidio (come nel caso di Commerzbank)”.
Ma tra i tanti scenari possibili di Unicredit, quale ha maggiori probabilità di realizzarsi?
“Non sono in grado di sciogliere il dubbio. Vedremo nelle prossime settimane quale delle tre seguenti possibilità si concretizzerà. La prima è che i termini di scambio proposti da Unicredit siano stati una mossa di apertura di una partita complessa, destinata a sfociare nell’acquisizione di Bpm ma con un premio di molto superiore a quello iniziale anche per superare possibili contro-offerte avanzate da un cavaliere bianco o sedicente tale. La seconda possibilità è che Unicredit miri a imporre a Bpm una lunga fase di passivity rule, così da dilazionare nel tempo operazioni straordinarie rispetto ad Anima e da ostacolare la costruzione di un’integrazione fra Bpm e Mps. La terza possibilità è che Unicredit punti ad associare nell’operazione uno degli attuali azionisti di Bpm. Al riguardo, il maggiore (ma non l’unico) indiziato è Crédit Agricole che detiene il 9,18% delle azioni di Bpm e che è, attualmente, il maggiore azionista della banca milanese. Crédit Agricole ha il controllo (rispettivamente, 65% e 61%) delle attività assicurative e della società per il credito al consumo che coinvolgono Bpm; inoltre, esso internalizza da tempo una delle maggiori società di gestione del risparmio dell’EA (Amundi), che detiene una quota azionaria di Unicredit (1,3%) e ha con esso un accordo di distribuzione dei prodotti del risparmio gestito. Crédit Agricole potrebbe essere interessato ad accordarsi con Unicredit per cedergli le fabbriche-prodotto, detenute con BPM, in cambio di una parte della rete di sportelli di Bpm in Italia”.
Ma che rapporto c’è tra le operazioni in corso e i processi di aggregazione bancaria europei?
“Non so, evidentemente, valutare le probabilità dei tre scenari alternativi che ho descritto (e di altri possibili). Resta il fatto che tutti e tre possono essere parte dei processi europei di aggregazione bancaria che includono, nel medio termine, anche l’acquisizione del controllo di Commerzbank da parte di Unicredit e possibili mosse difensive da parte delle banche che oggi sono prede ma che domani potrebbero inserirsi in altre iniziative di consolidamento. Il solo dato certo è che i governi nazionali non devono interferire con tali iniziative, la cui regolamentazione spetta alla vigilanza della Bce in cooperazione, se del caso (banche meno significative), con le autorità nazionali di vigilanza.
La scommessa da vincere è la costruzione di gruppi bancari europei con dimensioni adeguate a svolgere, nel loro proprio interesse, quelle attività che sono essenziali per la costruzione di mercati finanziari europei e per la mobilizzazione della ricchezza delle famiglie e delle imprese. Un minor numero di grandi gruppi bancari e di banche più piccole, che operino su mercati finanziari non segmentati e di dimensione davvero europea, assicurano una maggiore concorrenza rispetto a una pletora di banche che sono schiacciate in segmenti protetti di mercato e in attività tradizionali con fabbriche-prodotto inefficienti perché troppo piccole. In questa prospettiva, agire per una presunta difesa degli interessi nazionali significa opporsi ai progressi europei e condannare la nostra area economica al declino”.