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Ungheria sull’orlo della bancarotta e della dittatura: rischia l’esclusione dall’Europa

“Menjünk vissza Ázsiába!” in ungherese significa: “Torniamo in Asia!”. È il titolo di una bellissima poesia di Endre Ady, scritta nel 1902, quando l’Ungheria era ancora un Impero e l’Europa non era ancora l’Europa. Ma ci aveva visto lungo, il giovane poeta originario di Érmindszent, appassionato di cultura francese e fautore attraverso le sue opere dell’avvicinamento del suo Paese all’occidente. Salvo poi rimanere deluso, già allora, da un processo che non decollò mai, e che adesso, oltre un secolo dopo, torna più che mai attuale con il rischio dell’esclusione dell’Ungheria dall’Europa, dopo esserci entrata appena otto anni fa, nel 2004.

Ady avrà sicuramente ispirato anche le decine di migliaia di cittadini che nei giorni scorsi hanno protestato nelle piazze della capitale Budapest, mortificati dalle scelte del loro premier Viktor Orbàn. Il responsabile di questa situazione è infatti lui: presidente del Consiglio da neanche un anno (dopo esserlo già stato tra il 98 e il 2002), il leader del partito populista e conservatore Fidesz è riuscito nell’impresa di rendere catastrofica una situazione già difficile. La sua è stata una sequela di scelte sciagurate, culminate nella riforma della Costituzione a colpi di maggioranza. Soprattutto, ed è ciò che più irrita la comunità internazionale e più inquieta i mercati, Orbàn ha deliberatamente disatteso uno dei requisiti fondamentali e imprescindibili per l’ingresso nell’eurozona rinunciando all’autonomia della Banca centrale, i cui membri direttivi ora non saranno più scelti dal governatore ma direttamente dal presidente del consiglio attraverso il Parlamento. La norma viola il Trattato di Lisbona e per questo motivo ha già causato l’interruzione delle trattative per i prestiti da parte del Fmi e dell’Ue al Paese.

I motivi per allarmare Bruxelles sono tanti, vista la situazione già pesante in cui versa il Paese magiaro: debito pubblico ai massimi da 16 anni (tagliato da Moody’s e da Fitch a livello ‘spazzatura’), il fiorino che vola a 320 per un euro, i tassi d’interesse che nell’asta dei titoli di Stato di ieri (piazzati solo 35 dei 45 miliardi programmati) si sono impennati quasi al 10%. Insomma, il perfetto scenario di una bancarotta. Per di più aggravato dalle megalomanie di Orbàn, che addirittura lo scorso agosto ha ferocemente accusato di questa situazione il governo precedente: “Gestione criminale dell’economia, pagheranno di fronte alla giustizia” disse in tono dittatorio il presidente, raccogliendo già dopo pochi mesi dall’elezione le prime preoccupazioni della comunità internazionale.

Preoccupazioni accresciute con la riforma della Carta, che oltre alla questione della Banca centrale, ha visto anche una corposa modifica dell’assetto elettorale: ridotto il numero dei parlamentari da 386 a 199 ed elezioni a turno unico, il che penalizza i piccoli partiti e favorisce la sua maggioranza. Maggioranza che d’ora in poi avrà le mani ovunque, con la nomina per 9-12 anni degli uomini di Orbàn sulle più importanti poltrone dell’economia, del sistema giudiziario, dell’esercito e della polizia. Un vero e proprio golpe. E non è tutto. Il dissenso, o quel poco che ne rimane, sarà definitivamente imbavagliato dalla legge che limita la libertà della stampa: l’unica radio di opposizione è stata già oscurata e d’ora in poi giornali, televisioni e agenzie opereranno esclusivamente sotto l’egida del governo. Ridotta al minimo anche la libertà religiosa: Dio compare per la prima volta sulla Costituzione di una nazione a forte componente laica, l’embrione è considerato essere umano e il matrimonio è possibile solo tra uomo e donna. Il tutto è stato poi messo in cassaforte attraverso una norma che prevede una maggioranza di 2/3 per modificare l’attuale riforma.

Più che tornare in Asia, qui si torna drammaticamente indietro: in un tempo che forse l’Ungheria, glorioso Paese nel cuore dell’Europa e protagonista della storia del continente, non ha mai vissuto così buio e retrogrado, tranne che sotto il regime comunista. Questo piccolo grande Paese, per il quale Endre Ady aveva sognato un futuro democratico e filo-occidentale, è oggi sempre più lontano dall’Europa.

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