Sono numerosi gli effetti collaterali della pandemia scatenata dal Covid-19. Sicuramente, tra i più evidenti a livello di controllo sociale c’è l’azzeramento di tutte le forme di protesta civile contro governi autoritari o per la difesa di diritti: dal Cile a Hong Kong, dall’Argentina al Brasile fino all’India, per non dimenticare Iran, Iraq e Libano. Non ultima la Turchia, che alla vigilia di Pasqua ha dichiarato a sorpresa due giorni di coprifuoco.
E se, per ognuno di questi contesti, potremmo trovare spunti da situazioni politiche deterioratesi negli ultimi mesi o da un aggravamento delle crisi economiche dei Paesi, ciò che sta accadendo in Ungheria e in Polonia è stato pianificato da tempo.
Proprio al centro di un’Unione Europea, questi due Paesi offrono spunti per una riflessione sulla distribuzione delle risorse finanziarie europee tra Paesi aderenti all’euro e Paesi dell’Unione Europea esterni all’Eurozona.
Sono otto i Paesi Ue che utilizzano la propria valuta nazionale. Si pensa che siano in ansiosa attesa di aderire all’euro, una volta soddisfatti certi criteri predefiniti, ma evidentemente non hanno fretta di uniformarvisi, in quanto possono comunque godere di buona parte dei benefici finanziari di appartenenza.
Così, in concomitanza con il compromesso raggiunto dall’Eurogruppo, che ha varato una serie di misure in accordo con la Bce, diventa inevitabile l’aspettativa di un fronte unico che si contrapponga ai “pirati sovranisti” pronti all’arrembaggio contro le risorse europee.
UNGHERIA: ORBAN E IL SOGNO IDENTITARIO MAGIARO
Con l’approvazione di una legge a fine marzo per la gestione emergenziale del Covid-19, il Governo ungherese ha inasprito lo stato d’emergenza già dichiarato a inizio mese, permettendo al Premier Orban di governare per decreto ed esautorando di fatto il Parlamento attraverso una clausola prevista dalla nuova Costituzione introdotta (dallo stesso Orban) nove anni fa. L’annuncio di un inasprimento delle pene per la divulgazione di informazioni false mette poi definitivamente un bavaglio a stampa e media, oltre che ovviamente alle opposizioni.
Alla condanna delle Nazioni Unite si è unito il monito del Consiglio d’Europa su questa presa di potere illimitato che viola le regole democratiche.
Se qualcuno avesse dubbi sulla riottosità dell’Ungheria verso l’euro basta ascoltare le numerose dichiarazioni di Gyorgy Matolcsy, governatore della Banca Centrale ungherese e numero uno del Fidesz, l’Unione Civica Ungherese, un partito conservatore cristiano democratico sospeso dal 2019 dal Partito Popolare Europeo (PPE) per una campagna diffamatoria contro l’ex Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker. Matolcsy inneggia alla Brexit e all’energia nucleare, accusando tra l’altro i Verdi ungheresi di essere espressione dell’estrema sinistra.
Ci sono poi le prese di posizione di Orban sui Carpazi come bacino fondamentale per produrre cibo e acqua pulita per l’Ungheria dopo i cambiamenti climatici. Queste affermazioni si legano alla politica d’ingresso con doppia cittadinanza che Orban ha assicurato con la Costituzione del 2011 ai quasi 3 milioni di “ungarofoni” fuori dalle frontiere dell’Ungheria, nel bacino dei Carpazi, senza tenere conto che la metà di questi sono in Romania.
C’è da chiedersi cosa ne sia stato tra l’altro della risoluzione votata nel 2017 – e supportata da un Rapporto di Amnesty International – con la quale il Parlamento Europeo impegnava la Commissione ad avviare le procedure sancite dall’articolo 7 del Trattato, che prevede per gli stati membri che violino i diritti fondamentali dei cittadini una serie di sanzioni, fino alla sospensione del diritto di voto nel Consiglio europeo.
Come niente fosse, nell’impunità più totale, Orban organizza un nuovo partito di destra ungherese da far confluire nel gruppo europeo che accoglie sovranisti e nazionalisti conservatori, compresi i polacchi e gli italiani, così scavallare l’isolamento imposto a Fidesz.
“PATRIA E FAMIGLIA” GUIDANO I NAZIONALISTI IN CAMPAGNA ELETTORALE
Ma il piano polacco-ungherese improntato all’opportunismo politico dell’Unione Europea era già stato sancito nel 2016, proprio nei Carpazi. In quell’incontro storico, i due Paesi unirono le rispettive retoriche sulle politiche anti-migranti che li avrebbero portati a erigere muri di filo spinato e a condurre campagne elettorali foriere di nuove limitazioni delle libertà individuali, a partire da quella di stampa. Tutto questo per giustificare una deriva che non ha nulla a che fare con un’unione di intenti europeista, ma solamente con istanze opportunistiche legate all’accaparramento dei fondi strutturali europei.
Non deve stupire quindi che la Polonia, con grande tempismo, il 6 aprile abbia ottenuto dalla Commissione Europea, nell’ambito del quadro temporaneo per gli aiuti di Stato, un pacchetto di assistenza all’economia. L’Esecutivo comunitario ha spiegato che la Polonia si avvarrà del nuovo regime che consente di assicurare garanzie pubbliche per un importo massimo di 22 miliardi di euro. Il sostegno consiste nella fornitura da parte della Banca nazionale polacca di sviluppo di garanzie pubbliche su prestiti di investimento e prestiti di capitale circolante. Ai fondi potranno accedere le medie e grandi società polacche attive in tutti i settori. Dal punto di vista delle imprese, si tratta di un aiuto fattivo per coprire il capitale circolante immediato e le esigenze di investimento, assicurando liquidità sufficiente alla continuità produttiva. Misura analoga a quella che nella crisi del 2008 permise alla Polonia, che è il principale destinatario dei fondi europei, di essere l’unico Paese dell’Ue a non andare in recessione.
Ad ogni buon conto, anche il Governo polacco – come quello ungherese – non brilla sui diritti civili delle donne e delle ragazze. Infatti, la prossima settimana il parlamento di Varsavia discuterà due proposte di legge: una prevede ulteriori restrizioni sull’accesso all’aborto, mentre l’altra intende criminalizzare gli educatori sessuali, accostandoli ai pedofili. Quanto alle elezioni presidenziali polacche previste per maggio, sembra ormai certo che saranno rimandate.
Intanto, sono passati 10 anni dall’incidente aereo di Smolensk, nel quale tra le 96 personalità decedute spiccava il compianto presidente Lech Kaczynski. Su quella tragedia continuano a indagare i russi, che trattengono i resti dell’aereo Tu-154 Siły Powietrzne.
Il Cremlino osserva le mosse di polacchi e ungheresi con grande attenzione per le evidenti implicazioni che possono avere in un indebolimento politico e finanziario dell’UE. Non mancano i sospetti che Mosca abbia esteso anche a Varsavia e a Budapest i finanziamenti ai partiti antieuro che da ormai 5 anni son emersi all’attenzione delle istituzioni europee.
Alla luce di tutto questo, Bruxelles dovrebbe definitivamente sospendere qualsiasi tipo di sostegno finanziario verso Paesi che, invece di essere in spasmodica attesa di entrare nell’Eurozona, ballano una macabra danza senza recedere un passo da richieste senza logica né etica.
A ben vedere, e a proposito di opportunismi, di questi tempi nel dibattito europeo – oltre alle istanze dei sovranisti della “mitteleuropa che fu” – stride anche l’atteggiamento della supercompetitiva Olanda, che si conferma il paradiso delle holding grazie ad un diritto societario particolarmente semplificato e a una tassazione minimale sugli utili.