Nell’ultimo quarto di secolo, l’industria italiana complessivamente ha perso contenuto, il suo valore aggiunto è diminuito rispetto al fatturato molto più della media europea, si è quasi dimezzato, diciamo che l’industria si è un po’ commercializzata, compra e rivende mettendoci non molto di suo. Nel 2014, tuttavia, questo processo di impoverimento si è fermato e il valore aggiunto ha recuperato un piccolo punto percentuale.
L’ultimo forte aumento del contenuto industriale ci fu tra il 1980 e il 1988, nonostante neanche il governo dell’epoca avesse una moderna politica industriale, visto che si limitò a introdurre incentivi all’innovazione tecnologica, peraltro quasi tutti a beneficio delle imprese del Nord e non certo di quelle del Mezzogiorno. In quegli anni il merito della crescita, se così si può dire, fu della spesa pubblica di parte corrente che cominciò a crescere in misura patologica, alimentando un debito abnorme.
La diminuzione del valore aggiunto misurata tra la fine degli anni Ottanta e la fine dei Novanta fu in parte conseguenza del processo di decentramento di funzioni aziendali che, a partire dalle imprese lombarde, diede origine al cosiddetto Terziario Avanzato e fu fisiologica perché rappresentò la risposta competitiva italiana a cambiamenti nell’organizzazione industriale che si andavano affermando in campo mondiale. Una netta e chiara deindustrializzazione cominciò invece alla fine degli anni Novanta. La ragione di questo processo negativo è facilmente individuabile in una caduta degli investimenti, che a partire dal 1998 si mantennero inferiori perfino all’autofinanziamento (somma di ammortamenti e utili non distribuiti) e nonostante lo stesso autofinanziamento andasse calando. Calava perché i mezzi di produzione, via via che arrivavano alla fine della loro vita utile, invece di essere rimpiazzati, continuavano a restare in funzione senza dover essere ulteriormente ammortizzati; calava anche perché gli utili di gestione venivano svuotati da dividendi massicciamente distribuiti agli azionisti.
Lungo questo percorso di declino industriale, tuttavia, le aziende miglioravano la loro efficienza di gestione, salvavano una sia pur solo apparente redditività (apparente perché in realtà ottenuta senza accantonare grossi ammortamenti), rimborsavano i debiti e, contrariamente a quanto comunemente si pensi, rafforzavano il loro stato di salute patrimoniale e finanziario. Insomma, un po’ paradossalmente, le imprese invecchiate chiudevano i battenti in buone condizioni e lo facevano sol perché gli imprenditori perdevano slancio e propensione al rischio. La perdita di occupazione nelle medie e grandi imprese industriali italiane può essere stimata pari a un terzo di quella esistente all’inizio della deindustrializzazione.
Il 1998 fu anche l’anno a partire dal quale il nostro paese andò perdendo competitività. Esistono diversi indici internazionali che la misurano, ma un po’ tutti concordano sul datare al 1998-99 l’inizio del deterioramento della competitività dell’Italia. Anche da questo versante, tuttavia, nella graduatoria 2015 il nostro paese ha fatto un apprezzabile balzo all’insù.
La perdita di competitività è il risultato di tante cose, dalla politica fiscale al debito pubblico, dall’inefficienza della Pubblica Amministrazione all’aumento del costo di reti e servizi a carico delle imprese industriali. Ebbene, in Italia, le società di rete gas, rete elettrica e autostrade beneficiano di tariffe generose che non sono determinate dal mercato perché sono regolate da autorità amministrative. Queste società presentano performance economiche strabilianti, al punto tale che è lecito immaginare esistano margini ampi di riduzione delle tariffe stesse, che le autorità amministrative non riducono. Anzi, a questo punto si impone una riflessione sulle autorità di regolazione, guidate in passato da vertici non sempre indipendenti dalla politica.
Normalmente, nella pianificazione strategica, i vertici aziendali affrontano la decisione se fare o no investimenti tecnici in nuovi mezzi di produzione. Se la politica economica del paese che dovrebbe ospitare i nuovi investimenti ha un livello di incertezza accettabile, se cioè è abbastanza stabile e credibile, allora le aziende valutano il rischio fisiologico insito nel business e varano gli investimenti; se invece l’indicatore del livello di incertezza del paese è troppo alto (una sorta di inverso della fiducia delle imprese), allora le aziende rinviano gli investimenti a tempi migliori. Nel 1998 in Italia fu misurato dall’Isae un incremento dell’incertezza tanto elevato da scoraggiare la stragrande maggioranza dei nuovi investimenti, specie quelli in progetti ad alta tecnologia, in imprese grandi, nel Mezzogiorno.
Il 1998 è stato dunque l’anno al tempo stesso di inizio della caduta degli investimenti delle imprese industriali, di inizio del deterioramento della competitività del paese, di raggiungimento della massima incertezza nella politica economica e istituzionale. D’altronde, a ben riflettere, tra il 1990 e il 1998 in Italia, sotto la pressione della Commissione europea e del mercato unico, erano venute meno molte certezze pluridecennali, erano stati smantellati uno dopo l’altro i principali strumenti dell’intervento pubblico nell’economia che il regime fascista sessant’anni prima aveva allestito per arroccare, proteggere e isolare l’Italia dagli effetti della crisi di borsa e finanziaria mondiale del 1929.
Dopo la seconda guerra mondiale tutti quegli strumenti, previa qualche correzione ideata dai governi illuminati dei primi anni Cinquanta, avevano consentito all’Italia di entrare nel novero dei paesi industrializzati, ma poi erano stati asserviti alla gestione del potere dal partito di maggioranza relativa. È il caso: dell’IRI, primo dei tre enti a partecipazione statale; dell’IMI, principale istituto di credito industriale; del protezionismo di mercato; del Comitato di ministri per il coordinamento della politica industriale. Questo smantellamento dell’intervento pubblico e la fine delle svalutazioni competitive della moneta, dovuto allo sfavorevole ancoraggio della lira al marco tedesco a fine 1996 e all’ingresso nell’euro due anni dopo, non furono compensati da alcun nuovo modello di governance dell’industria. Anche la concertazione, dopo una prima efficace applicazione nel 1993, subì poi un grave colpo con il fallimento del governo che (anche in questo caso a fine 1998) l’aveva presa a sostanza del suo programma.
Seppure consentirono all’Italia di entrare nel novero dei paesi industrializzati, le partecipazioni statali non contribuirono alla crescita di un tessuto produttivo del paese sufficientemente robusto e competitivo. Considerando poi che la seconda e la terza generazione sono meno innovative di quella dei fondatori delle imprese, invece di difendere ostinatamente imprese vecchie, lo Stato fa molto meglio a creare le condizioni perché nascano nuove giovani imprese.
La Confindustria, parlando a nome dei suoi associati, ha sempre chiesto al governo cose giuste ma, per così dire, ha chiesto di tutto e di più, da un maggior credito bancario a un aiuto per ricapitalizzare le imprese, dalla ricerca all’innovazione tecnologica, da una riforma del mercato del lavoro a una della Pubblica Amministrazione, dalla giustizia civile alle opere infrastrutturali, dalla politica commerciale estera al fisco, da scuola e sanità ai beni culturali, dalla politica estera fino al taglio del costo della politica. Ha chiesto tutte queste cose senza la benché minima autocritica, senza un ordine di priorità, senza indicare il bandolo della matassa, con l’implicita supina accettazione che il governo, volendo magari accogliere le istanze ma non avendo abbastanza soldi, facesse poco di tutto, cioè alla fine nulla. Nell’interloquire con il governo, Confindustria non è mai stata in grado di impegnare il comportamento imprenditoriale dei propri associati, né avrebbe potuto farlo perché questi restavano legittimamente gelosi della propria autonomia.
Per non citare il comportamento di chi, come la FIAT di Marchionne, ha perseguito una multinazionalizzazione darwiniana, senza intervento dello Stato e addirittura contro il sindacato di imprenditori e lavoratori. Si è trattato in questo caso di un modello dirompente, di grande successo, ma difficilmente replicabile sul grosso dell’industria italiana.
Nella primavera del 2014 il governo oggi in carica esordì puntando a rafforzare la domanda interna e, per questa via, a innescare una ripresa della produzione industriale e quindi dell’occupazione. Quella scelta fu di portata limitata, ma efficace. La successiva azione del governo, impostata su riforme idonee a migliorare la posizione competitiva del paese, dal Jobs Act alla riforma dell’articolo 18 e alla riforma elettorale, contribuì a diminuire l’incertezza delle imprese. In senso opposto agirono gli squilibri geo-politici internazionali, sfociati nel crollo delle quotazioni del greggio.
Nel mese di marzo 2016 sono emerse due importanti novità, entrambe mirate a organizzare risorse a medio-lungo termine per far credito agli investimenti produttivi. Innanzitutto, il governo italiano offre un incentivo fiscale alle famiglie che incanalino il proprio risparmio verso investimenti produttivi in modo stabile e duraturo. Inoltre, la BCE non solo incentiva le banche che fanno credito alle imprese ma, soprattutto, a partire da metà 2016 acquista bond aziendali emessi da imprese purché queste abbiano un rating “investment grade”. I problemi del finanziamento degli investimenti industriali sembra così risolto definitivamente.
Resta invece insoluto l’altro corno del dilemma, quello ben più importante, direi esistenziale, della propensione degli imprenditori a intraprendere, a investire. Questo dilemma è legato all’incertezza, alla competitività del sistema Italia e alla convenienza economica. Faccio qui alcune proposte, due sul piano istituzionale e due su quello della convenienza economica.
Sul piano istituzionale, parto da quanto sollecitato dalla BCE, secondo cui «il contesto regolamentare dovrebbe essere reso più favorevole alla crescita economica». In primo luogo, sarebbe opportuno che il governo elaborasse una road map per l’ulteriore recupero della competitività del sistema produttivo, l’approvasse e affidasse a un ministro il compito di svolgere la verifica della sua attuazione e un’opera di sollecito (expediting) nei confronti di tutte le amministrazioni in qualunque modo competenti in materia, riferendone sistematicamente in Consiglio dei ministri e proponendo se del caso l’adozione di eventuali misure correttive. Poiché con la soppressione del Cipi (sia chiaro, senza rimpianti) si è perso un momento di coordinamento della politica industriale, poiché per politica industriale oggi si deve intendere quella della competitività del sistema produttivo, senza tentazioni di vetero-interventi diretti dello Stato nell’economia, e poiché il Ministero dello Sviluppo economico ha una capacità organizzativa e professionale ben superiore all’odierno ruolo di gestore delle crisi aziendali, sarebbe a mio giudizio opportuno che questo compito di verifica e sollecito fosse affidato proprio al ministro dello Sviluppo economico.
In secondo luogo, il Parlamento dovrebbe accertare perché le tariffe di reti e servizi sono tanto alte e sproporzionatamente remunerative per le società che li gestiscono. Poi, sulla base delle risultanze di un simile accertamento, dovrebbe riconsiderare l’assetto istituzionale delle rispettive autorità di regolazione del mercato.
Sul piano della convenienza economica, parto dal mio convincimento che sarebbe sbagliato prendersela con una categoria, per esempio con gli imprenditori. Se essi dal 1998 sono fiacchi nella loro attitudine precipua, che è quella di investire, vuol dire che sono venute meno le condizioni dell’ecosistema che ne consentono le convenienze e la stessa sopravvivenza della specie. Allora, il governo eccezionalmente consenta a tutte le medie imprese industriali di ammortizzare i nuovi eventuali investimenti del biennio 2017-2018 con coefficienti liberamente scelti, superiori ai massimi fiscali, fino magari a spesarli direttamente nel conto economico di ciascuno dei due esercizi. Così, per un paio d’anni, le imprese investirebbero con entusiasmo, detrarrebbero le spese d’investimento, azzererebbero i loro già scarsi utili imponibili, non distribuirebbero dividendi, pagherebbero poche o nulle tasse sul reddito, il Fisco ci rimetterebbero un po’ ma poi, per tutta la vita dei nuovi impianti produttivi, nati già ammortizzati, gli utili e le maggiori entrate tributarie più che compenserebbero gli azionisti e il Fisco stesso. Il cosiddetto Superammortamento varato dal governo nella Legge di stabilità 2016 è corretto nella qualità, ma insufficiente nella misura.
In secondo luogo, avendo raccolto il più ampio consenso tra i suoi elettori, conoscendone perciò timori e speranze recondite, il nuovo presidente di Confindustria Vincenzo Boccia dica pubblicamente in estrema sintesi qual è la priorità ragionevole e più prioritaria (mi scuso per l’espressione); quella che, una volta impostata nei tempi tecnici, consenta finalmente alle nostre imprese di sprigionare tutte le loro potenzialità, tornare a investire e cogliere le enormi potenzialità che il mercato globale offre.
Il governo avrebbe sei mesi di tempo per impostare il ripristino di condizioni di contesto favorevoli, prima che le imprese industriali italiane si convincano e mettano nel budget 2017 i nuovi investimenti produttivi. A inizio 2019 se ne vedrebbero i benefici occupazionali. Questa è una sorta di ultima chiamata per Confindustria, ma lo è anche per il Paese.