In una delle tante notti polari, tipiche del lungo inverno russo, la temperatura a Pietroburgo segnava 35 gradi sottozero. Poi, all’improvviso, accadde qualcosa d’incredibile: il termometro si alzò di ben 40 gradi fermandosi a 5 sopra lo zero. Era la notte del 2 gennaio del 1782, e le cronache del tempo la descrissero come una straordinaria mutazione dell’aria che causò, tra la popolazione, una repentina epidemia influenzale che contagiò il giorno stesso, sembra, almeno 40 mila persone.
È uno dei tanti episodi tratti dai resoconti delle epidemie influenzali che imperversarono in Europa nei secoli XVIII e XIX. Un’epoca difficile per la medicina che, di fatto, ancora combatteva “a mani nude” contro tutte le malattie. Non escluse le ricorrenti epidemie influenzali. In questo caso, una capacità diagnostica assai vaga, portava i medici del tempo ad attribuire le cause del malanno alle “influenze” (da qui poi il nome) atmosferiche, ma anche ai fenomeni naturali o al ripetersi di cicli cosmici: tutte interpretazioni e spiegazioni che si ricollegavano, per la maggior parte, a speculazioni risalenti alla medicina dell’antichità classica.
Tra il 1836 e il 1837, come già era accaduto negli anni precedenti e come accadrà in seguito, l’Europa fu investita da un’epidemia influenzale. Tutti i paesi ne furono colpiti, compresa l’Italia. A Roma, in quegli anni, si stampava il periodico “Diario di Roma”. Una pubblicazione eclettica. In pratica, una raccolta di notizie di vario genere che andavanodagli scavi archeologici ai necrologi di uomini illustri fino a osservazioni di carattere meteorologico della Specola del Collegio Romano. Spazio importante nelle pagine del “Diario” era anche riservato alla cronaca di eventi considerati di particolare interesse: fatti non solo romani e italiani, ma anche provenienti dai principali paesi europei. E nell’anno1837 una parola cominciò a ricorrere sempre più spesso nei resoconti pubblicati: “grippe”.
Le cronache raccontano che l’influenza cambiò nome in “grippe” nel 1743, durante l’ennesima epidemia. Le origini sono poco chiare. Alcuni sostengono che derivi dal russo “chrip” o dal polacco “crypka”, entrambi con il significato di “raucedine”, “rantolo”. Altri, invece, fanno risalire la denominazione al fatto che tutti gli ammalati avessero sintomi generali uniformi che portavano a fattezze raggrinzate contratte o smagrite, in una parola a una faccia “grippata”.
Fatto sta, che negli anni 1836-37, dall’Inghilterra partì un’ondata epidemica di “grippe” che sfortunatamente, ma questa condizione si verificava spesso, si sovrappose a un altro ricorrente lugubre passaggio in Europa: quello del cosiddetto “cholera asiatico”. Così lo stivale, nel 1837, subì un duplice attacco da nord e da sud. Nel febbraio, dopo essersi propagata in Inghilterra, Francia, Spagna, Germania, l’epidemia influenzale dilagò nel nord Italia. E all’incirca nello stesso periodo, sia a Palermo che a Napoli, faceva anche la sua comparsa il colera che poi avrebbe risalito la penisola fino a mettere sotto assedio, qualche mese dopo, la Roma di Papa Gregorio XVI.
In questo quadro, i resoconti del “Diario di Roma” scandiscono, una sorta di bollettino sanitario ante litteram, di un’Europa – nell’anno 1837 – sotto scacco di un subdolo, imprevedibile e maligno morbo influenzale. Una temperie che sembra rimandare, fatte le debite proporzioni, al nostro infausto 2020, con l’Europa di oggi alle prese con il covid.
Ma, tornando al 1837, già a gennaio – secondo le notizie pubblicate dal “Diario di Roma”, la “grippe” in Inghilterra, “…fa la massima strage”. A Londra “tutti gli ospedali civili e militari sono pieni di infermi, e tutto il dì si è nell’obbligo di rifiutare molte persone che si presentano per essere curate”. In Scozia, a Edimburgo “…la malattia si è sviluppata con una grande intensità…non vi è quasi casa, in cui non sia qualche persona attaccata…”, e anche in Irlanda dilaga: “…fa in alcuni luoghi delle stragi spaventevoli…”
In Francia non va certo meglio. A febbraio, i dispacci da Parigi sono dello stesso tenore:“…la metà della popolazione…è attaccata dalla grippe”. Addirittura, nella capitale francese, ormai si fa prima a contare i sani rispetto ai contagiati, in quanto: …collegi, case di pensione, le caserme, gli ospedali, le prigioni ne sono specialmente invase”. E l’infezione sembra non guardare in faccia nessuno. La “grippe”, infatti, fa irruzione anche nel Parlamento:”…l’influenza agisce assai sui signori deputati, la tornata di oggi è stata quasi sempre interrotta dallo strepito di tossi ostinate”, al punto che “i membri della Commissione hanno chiesto il permesso di parlare a mezza voce, per non irritare troppo il loro petto…”, mentre il Presidente, adottando un altro rimedio assai empirico: “…va bevendo spesso alcuni sorsi d’acqua collo zuccaro”.
A febbraio l’epidemia raggiunge i paesi dell’Europa centro-settentrionale: Belgio, Olanda, Germania e Danimarca. Il “Diario di Roma”, fa sapere che a Francoforte molte persone sono attaccate dalla “grippe”. All’Aja imperversa:”…gli impiegati mancano dagli uffici…i spettacoli sono cessati, le scuole sono in parte deserte”. A Copenaghen il contagio è così esteso tra i militari che non è più possibile effettuare il servizio giornaliero di guardia, mentre da Bruxelles giunge il numero della diffusione del morbo:”…si contano più di 35 mila persone affette dalla malattia”.
A marzo arriva la notizia del contagio di Ferdinando VII di Spagna: “…i Re e parecchi dei principali membri del suo governo ne sono attaccati”. Madrid è sotto assedio: “…il contagio fa progressi spaventosi. Epidemie maligne vanno decimando gli ammalati negli ospedali”. Ma, dalla Spagna arrivano anche brutte notizie sul comportamento delle autorità. Da un lato un governo centrale che invece di intervenire in aiuto della popolazione, aspetta che sia la popolazione stessa a cavarsi dai guai, e che quindi: “…reclama soccorsi dalla pubblica generosità per prevenirne lo sviluppo, ma questo appello è accolto freddamente”, dall’altro viene denunciato il comportamento delle amministrazioni cittadine, i cui membri:”…si mostrano più occupati d’intrighi, che del bene generale”.
E poi, c’è l’Italia. La “grippe”, come detto, scende da nord. A marzo è a Genova, dove si propaga velocemente: “…non vi è ormai più famiglia, stabilimento pubblico, corpo religioso e civile, dove non si contino ammalati”, ma invade, nello stesso tempo, anche Torino, Venezia e la Toscana. Subito dopo, tra le più duramente colpite c’è Bologna: circa 50 mila cittadini si contagiano, più dei due terzi della popolazione. Infine, ad aprile raggiunge la capitale. Qui, cade ammalato circa il 15% della popolazione: oltre 20 mila romani diventano preda della “grippe”.
Sempre nel 1837, nel pieno dell’epidemia, il Prof. Cav. Domenico Meli, medico al tempo famoso che si era anche occupato di colera e per questo era stato inviato dal Papa a Parigi, pubblica uno opuscolo sulla “grippe”: “Ammonizioni al popolo sul catarro epidemico volgarmente appellato grippe”, nel quale “ammonisce” appunto la popolazione “che non si faccia prendere da esagerati timori e sappia la vera maniera con che debba essere curato”. La diagnosi del Meli è, ovviamente, in linea con le conoscenze mediche del tempo, anche se avanza qualche piccolo dubbio: “…la grippe, e ciò a noi pare certo, dipenda da una costituzione atmosferica particolare, benché non del tutto bene conosciuta”. E in un altro passaggio, non si esime da un confronto tra influenza e colera che risultaparticolarmente esplicativo: “…una tale epidemia (la grippe), la quale manifestamente derivante da circostanze atmosferiche com’essa è, a differenza del cholera che dipende dal contagio”.
In altre parole, per quel che riguarda il colera, tra i medici del tempo, si era consolidata la teoria contagionista, ossia la trasmissione mediante contatti uomo-sano e uomo-malato, mentre per l’influenza rimaneva un punto fermo che la causa fondamentale derivasseda:”…molte e strane vicissitudini atmosferiche” che poi provocavano “infiammatorie malattie di petto”. Ed entrando di più nei particolari, spiegava sempre il Prof. Meli: “…se all’improvviso al soffio di vento meridionale succeda il nordico, o molta pioggia e neve, non può che risentirne la umana macchina”.
Di conseguenza, per combattere la maligna “grippe”, in primo luogo era raccomandato di “preservarsi dalle varie impressioni dell’atmosfera” e poi “nutrirsi parcamente con cibi di facile digestione”. Insomma, uno stile di vita sano, al quale poteva essere aggiunto, in caso di necessità: un purgante, di solito olio di ricino, e qualche bevanda sudorifera. E solo come ultima risorsa, veniva preso in considerazione la “madre” di tutti i rimedi della medicina del passato: il salasso. Rispetto al quale, il Prof. Meli, va detto, esprimeva comunque più di un dubbio:”…essere il salasso nel grippe rimedio molto dubbioso e perciò non da essere praticato con tana indifferenza e facilità”. Ma, nei casi particolarmente gravi non si poteva non ricorre a esso, ossia quando:”…il polso era piuttosto duro, assai frequente la difficoltà di respirare, il male al capo forte, il calore grande e la pelle piuttosto sciutta, in poche parole, se tendevasi a formare delle congestioni sanguigne piuttosto gravi…si faceva il salasso”. In un certo senso, era utilizzato un po’ come ultima arma, una specie di “terapia intensiva” del tempo.
La “grippe”, con il finire dell’anno 1837, scomparse dalle cronache del tempo. Ma si trattava solo di una breve pausa. Per tutto il XIX secolo si ripresentarono, più o meno regolarmente, altre ondate epidemiche influenzali fino alla grande pandemia del 1889. Un luminare del tempo, Roberto Giacomo Graves, professore d’Istituzioni mediche nella scuola di medicina d’Irlanda, ancora nel 1864 scriveva: “È probabile che il grippe (influenza) dipenda principalmente dall’influenza tellurica, e che riconosca per causa alcuni disordini negli agenti fisici che modificano la superficie esterna del nostro pianeta; ma nello stato attuale delle nostre cognizioni, noi non possiamo parlare per congettura, e dobbiamo guardarci dallo sdrucciolare in investigazioni puramente speculative e inutili. Quale sia la frequenza di questi disordini, a quali leggi essi obbediscano, ecco quel che resta ancora a sapersi”. Per fortuna, quel buio che per lamedicina dell’Ottocento sembrava impenetrabile, si sarebbe rischiarato di lì a poco, proprio alla fine del secolo, quando il botanico olandese Martinus Willem Beijerinck,studiando alcune foglie infette di tabacco, scoprì degli agenti patogeni molto più piccoli dei batteri che per la prima volta chiamò virus.