É passato un anno da quando l’impensabile accadde. Gli Stati Uniti persero il segno distintivo dell’affidabilità finanziaria, la Tripla A di cui si fregiano gli stati le cui finanze pubbliche sono le più sicure. Le agenzie di rating non avevano visto di buon occhio né il deficit pubblico – non lontano dal 10% del Pil – né il debito crescente né, soprattutto, l’animosità congressuale sul rinnovo del limite al debito pubblico: uno stallo creato dall’incapacità a mettersi d’accordo (fra repubblicani e democratici), stallo che aveva portato l’orgoglioso Tesoro americano pericolosamente vicino al default sul pagamento degli interessi.
La situazione da allora non è cambiata molto, se è vero che il deficit continua a essere alto, e non si vede un piano a medio termine di riduzione, se non quello che passa per le forche caudine del ‘fiscal cliff’ di inizio 2013: una stretta improvvisa del 4% del Pil, da cessazione dei tagli d’imposta dell’era Bush e inizio dei tagli automatici di spesa; stretta che metterebbe l’economia in ginocchio.
La funzione dei gridi di allarme lanciati dalle agenzie di rating è quella di mettere sull’avviso i risparmiatori: attenti a prestar soldi ai paesi devianti, o, se proprio li volete prestare, domandate più alti tassi di interesse. Ma questa volta le agenzie di rating hanno abbaiato alla luna. Da un anno a questa parte il Tesoro americano ha continuato a finanziarsi con la massima facilità, e i tassi sono perfino scesi a minimi storici. Certo, la crisi dell’euro ha aiutato: come ha detto Bill Gross, avere ‘la camicia meno sporca fra quelle in lavanderia’ è qualcosa che pesa nelle scelte degli investitori.
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