Theresa May si è dimessa. A tre anni dal suo insediamento, la Premier cede la guida dei Tories e del Governo britannico, lasciando dietro di sé una scia di rancori e di critiche. Nel luglio del 2016, May arrivò a Downing Street con un solo obiettivo: gestire la Brexit. Un’impresa che sarebbe stata ardua per chiunque, a dir la verità, ma che per il modo in cui è stata portata avanti si è trasformata in uno dei più clamorosi fallimenti della storia del Regno Unito, secondo solo a quello di David Cameron. In politica tre anni equivalgono ad un’era geologica, ma quando si parla di debacle, a Londra è impossibile non menzionare il Primo Ministro che per cercare di recuperare i voti persi in favore dell’euroscettico Nigel Farage, finì con l’indire il referendum – suicida – sull’uscita dall’Unione Europea, per poi essere costretto ad abbandonare Downing Street con la coda tra le gambe, sotto una pioggia di accuse incrociate per la scellerata campagna elettorale condotta (o meglio non condotta) prima del voto. Se May si è dunque rivelata inadeguata nella gestione e nella realizzazione della Brexit, a Cameron si deve l’esistenza stessa del “problema”.
Su Theresa May pesa però l’onta di aver scontentato chiunque, soprattutto tra i conservatori, riuscendo ad ottenere tre bocciature consecutive da parte del Parlamento Uk – un vero e proprio record – sull’accordo concordato con l’Unione Europea.
Le dimissioni erano state annunciate lo scorso 24 maggio e, in quel frangente, la stessa Premier ha ammesso: “È e sarà sempre un motivo di profondo dispiacere per me il fatto di non essere stata in grado di portare a termine la Brexit”.
May rimarrà in carica per occuparsi degli affari correnti fino a quando il Partito Conservatore sceglierà il nuovo leader. Il sistema politico britannico prevede infatti che sia il partito al potere, nell’ambito di crisi o dimissioni, a dover scegliere un nuovo capo che, una volta eletto internamente, diventa anche Primo Ministro.
Nel Regno Unito impazza già il totonomi per capire chi sarà il successore di May. Il grande favorito è Boris Johnson che sembra non avere rivali nella corsa per la leadership del partito e dunque anche per la poltrona a Downing Street.
Euroscettico convinto, grande amico di Donald Trump, Johnson è stato uno dei fautori del referendum sulla Brexit e ha già fatto sapere di voler “strappare” l’intesa siglata tra May e Bruxelles. Johnson fa parte dell’aria dura e pura del partito. Non a caso, lo scorso anno ha deciso di dimettersi dalla carica di ministro degli Esteri in aperta polemica nei confronti della linea troppo morbida che la Premier stava portando avanti nelle trattative con l’Unione europea. A mettergli i bastoni tra le ruote potrebbero essere solo “le colombe” conservatrici, che però al momento non sembrano avere la forza politica per spuntarla.
In questo contesto bisogna considerare poi che il profilo dei rivali in corsa per guidare il partito conservatore non si differenzia molto da quello dell’ex sindaco di Londra, tranne che per il fatto che i contendenti possiedono meno carisma e meno impatto politico di Johnson. Tra i papabili leader, secondo i giornali britannici, ci sarebbero infatti: Michael Gove, ex ministro dell’ambiente e brexiter (ma ha votato a favore dell’accordo con l’Ue); Dominic Raab, ex ministro per la Brexit, euroscettico. In corsa anche l’ex ministro degli Esteri e della Sanità, Jeremy Hunt, ex europeista passato poi dall’altra parte della barricata, e Andrea Leadsom, ministra dei lavori parlamentari che poche settimane fa ha deciso di lasciare per smarcarsi dalle posizioni della Premier.
Comunque vada, l’ipotesi di trovare un accordo con l’Unione europea potrebbe essere tramontata definitivamente, dato che pare ormai certo che il successore di May sarà un membro dell’ala più oltranzista del partito conservatore. Le possibilità che il prossimo 31 ottobre, giorno in cui è stata fissata la nuova scadenza della Brexit, il No deal si trasformi in realtà diventa di giorno in giorno più probabile.