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UE-Vietnam: accordo di libero scambio con dazi azzerati per il 65% dei beni

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Nel Sud-Est asiatico, una regione il cui export dipende per il 40% dalle catene globali del valore, con forti collegamenti con i nodi del commercio internazionale, la pandemia rappresenta un rischio sistemico. Tuttavia, la riorganizzazione delle catene del valore globali, pur innescando fenomeni di ritorno verso i paesi industrializzati, potrebbe rappresentare un’opportunità, favorendo un processo di rilocalizzazione di impianti produttivi ora presenti, ad esempio, in Cina. In seguito alla pandemia, manager di importanti imprese multinazionali sono infatti intenzionati a diversificare le proprie catene di approvvigionamento centrate sulla Cina: secondo un sondaggio di QIMA, il 67% di dirigenti di imprese europee e l’80% dei dirigenti americani intervistati sarebbero intenzionati a sostituire i propri partner cinesi con fornitori del Sud-Est asiatico. 

Nel secondo trimestre del 2020, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, l’economia della Malesia si è contratta del 17,1%, le Filippine del 16,5%, Singapore -13,2%, Thailandia -12,2%, Indonesia – 5,3%; solo il Vietnam è riuscito a registrare un incremento marginale pari allo 0,4%. Momento favorevole confermato anche dall’entrata in vigore il 1° agosto dell’accordo di libero scambio con la UE: il trattato favorirà aumenti dei flussi commerciali bilaterali fino al 30%, rendendo il Paese una delle principali piattaforme logistiche e commerciali per i commerci tra Asia ed Europa. L’accordo rappresenta il secondo stipulato da Bruxelles con un Paese Asean dopo quello con Singapore del 2019: obiettivo del trattato è l’eliminazione completa dei dazi sul 99% dei beni scambiati tra le controparti nell’arco di 10 anni, con il 65% di questi azzerati già dall’entrata in vigore di agosto. Oltre a beneficiare dell’abbattimento delle barriere tariffarie, le imprese europee vedranno ridursi anche gli ostacoli di natura non tariffaria, attraverso l’adozione di standard comunitari e internazionali, e godranno di un maggiore accesso al mercato vietnamita grazie alla possibilità di partecipare alle gare di appalto alle stesse condizioni degli attori locali. Sarà inoltre garantita la ratifica da parte di Hanoi delle convenzioni internazionali riguardanti il rispetto di diritti dei lavoratori e tutela dell’ambiente. 

L’accordo interviene sulle tariffe doganali attualmente in vigore tra le due aree, andando a sostituirle con un dazio preferenziale ridotto rispetto allo standard, che su alcune categorie merceologiche viene addirittura eliminato completamente. Tuttavia, questa tariffa preferenziale viene applicata solo sui beni che hanno ottenuto l’origine preferenziale, per la quale è necessaria la registrazione nella banca dati REX e la conformità alle regole presenti nell’allegato 2 del protocollo 1 dell’EVFTA. Inoltre, è stato deciso che per provare l’origine preferenziale dei prodotti europei destinati al mercato vietnamita, è necessaria una dichiarazione sulla fattura redatta da un esportatore registrato al sistema REX, mentre non sarà possibile utilizzare i certificati EUR1 e nemmeno lo status di esportatore autorizzato. Per quanto riguarda i soggetti europei già registrati al sistema REX, è possibile fare ricorso direttamente al numero di registrazione in proprio possesso per ottenere i vantaggi doganali previsti dall’EVFTA, a meno che non si tratti di prodotti diversi rispetto a quelli registrati, e in qual caso è necessaria un’integrazione. 

Come segnalato da Sacenegli ultimi anni il Vietnam ha mostrato una crescita economica di poco inferiore al 7% l’anno nel periodo 2015-19 e prevista al 2,3% nel 2020 e all’8% nel 2021 e si è distinto per la sua reattività nell’attuale contesto di crisi pandemica, affermandosi come importante hub manifatturiero. L’interscambio tra UE e Vietnam è passato da 12,7 miliardi di euro nel 2010 a 45,5 mld nel 2019. Tra i principali paesi beneficiari dell’accordo troviamo proprio l’Italia, nel 2019 terzo esportatore europeo dopo Germania e Francia con 1,3 mld di beni venduti, registrando di contro un disavanzo commerciale superiore a 1,8 mld, anche a causa dell’alta percentuale di dazi applicati ai prodotti europei.

 Dal punto di vista settoriale beneficeranno di questo accordo: la meccanica strumentale, che costituisce quasi il 30% del valore esportato nel 2019 e che, in alcuni comparti, era soggetta a dazi fino al 35%; i prodotti in cuoio e pelle, pari al 16% dell’export, e tassati fino al 10%; gli apparecchi elettrici (7%), sui quali gravavano dazi fino al 30%. L’accordo rappresenta anche un’opportunità per aumentare l’export di prodotti alimentari e di bevande italiane, fino a oggi soggetti a dazi molto elevati, che potevano raggiungere il 50% nel caso del vino e di alcuni prodotti lattiero-caseari, garantendone il corretto riconoscimento della provenienza. Saranno infatti tutelate 169 Indicazioni Geografiche europee, di cui ben 38 italiane, con un vantaggio non trascurabile per il marchio Made in Italy in un settore fortemente penalizzato dalle falsificazioni. 

L’Asian Development Bank (ADB), nel recente outlook di settembre ha confermato le prospettive negative per le economie asiatiche in via di sviluppo, stimando una contrazione annuale del Pil 2020 pari al 6,8%: il peggior risultato dal 1961. Il rimbalzo del 2021 sarà solo parziale, con una crescita prevista del 6,1%. La necessità di misure fiscali per contrastare la crisi economica è stimata a 3,6 trilioni  di dollari, pari al 15% del Pil regionale, in particolare attraverso politiche di sostegno al reddito. Per le economie Asean l’ADB stima infatti una contrazione del 2,7% nel 2020. L’interruzione delle catene del valore a causa dei lockdown e delle misure di quarantena stanno avendo effetti negativi per paesi fortemente dipendenti dal commercio regionale e internazionale, tra i quali Singapore, Vietnam, Cambogia, Malaysia e Thailandia.

I divieti ai viaggi internazionali e la chiusura temporanea degli spazi pubblici hanno colpito il settore di turismo e servizi. Paesi fortemente dipendenti dalle rimesse, come le Filippine, hanno subito un calo dei flussi in entrata delle stesse, con effetti negativi su consumi e investimenti. Nel frattempo, le misure di contenimento hanno avuto profondi riflessi sul mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione è previsto in aumento del 2,5% in Indonesia, dell’1,5% in Malaysia e dell’1,2% nelle Filippine. Infine, la politica accomodante adottata dalla Federal Reserve americana ha indotto un deprezzamento costante del dollaro, con riflessi negativi sulla competitività delle esportazioni. L’International Finance Corporation (IFC) sottolinea i rischi che la pandemia si traduca in crisi finanziaria a causa dell’aumento dei crediti deteriorati: le bancarotte nella regione sono stimate in aumento del 30%. A sostegno del tessuto economico e della liquidità delle imprese, l’IFC prevede di erogare più di 7 miliardi di dollari, con un focus sulle pmi.  

Per contrastare gli effetti avversi della pandemia, i paesi Asean hanno adottato piani di stimolo a sostegno dell’attività economica, con valori medi pari al 3,5% del Pil, ma con punte fino al 20%; ad oggi, sono stati spesi 355 miliardi di dollari in misure espansive. I livelli di debito pubblico sono conseguentemente in fase di crescita, sia per la riduzione del reddito nazionale che per l’aumento della spesa pubblica per sanità e investimenti. Tuttavia, non tutti i paesi del Sud-Est asiatico hanno la capacità di prendere a prestito fondi sui mercati internazionali: l’aumento dei disavanzi potrebbe quindi non essere sostenibile se protratto nel lungo termine. Alcuni paesi si sono rivolti alle istituzioni multilaterali per coprire le crescenti difficoltà di bilancio: Cambogia, Indonesia, Laos, Myanmar e Filippine hanno beneficiato di prestiti della Banca Mondiale attraverso la Fast-Track Facility; Indonesia, Laos e Filippine hanno ottenuto finanziamenti ulteriori da parte della Asian Development Bank. 

Le varie economie stanno progressivamente riducendo le misure di contenimento. E se la maggior parte dei paesi Asean ha allentato le misure di lockdown e i confini stanno gradualmente riaprendosi, l’approfondimento del processo d’integrazione economica e commerciale potrebbe essere una delle direttrici fondamentali per l’uscita dalla recessione. A questo proposito si segnala la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), un accordo commerciale in via di negoziazione tra i 10 paesi Asean con Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Se ratificato, interesserebbe il 30% della popolazione mondiale e circa il 29% del Pil. Allo stesso tempo, nel corso del 36° Summit Asean del 26 giugno, è stata decisa l’istituzione di un Covid-19 Asean Response Fund: i leader dei paesi Asean hanno concordato sulla necessità di adottare piani di rilancio economico coordinati, affinché la ripresa sia diffusa in tutta la regione.

Il secondo pilastro del rilancio è rappresentato da nuove infrastrutture sostenibili: centrali, in questo senso, rimangono il Master Plan on Asean Connectivity (MPAC) 2025 che ha l’obiettivo di dare impulso al commercio regionale, migliorare l’efficienza di catene del valore e mobilità delle persone. Nel settore energetico, l’Asean Plan of Action for Energy Cooperation (APAEC) ha riconosciuto la necessità di una transizione energetica pulita, con un target del 23% di energie rinnovabili nel mix energetico complessivo. In tale quadro, le infrastrutture digitali svolgeranno un ruolo centrale per il rilancio della regione e per assicurare un incremento della crescita potenziale di lungo periodo. Non a caso la ADB stima che l’economia indonesiana potrebbe avere un Pil aggiuntivo di 2,8 trilioni di dollari entro il 2040, qualora si procedesse verso una profonda digitalizzazione dell’economia del Paese. 

La centralità dell’area Asean è ben compresa sia da Cina che Giappone, entrambi partecipanti ai vertici in formato Asean+3. Pechino sta spingendo per una più forte integrazione economica e commerciale, insistendo per un maggior coordinamento tra la Belt and Road cinese e il Master Plan Asean. Una relazione confermata anche dalla crescita, nonostante la pandemia, del commercio tra Cina e partner Asean, che ad agosto ha raggiunto i 430 miliardi di dollari, in crescita del 7% rispetto all’anno precedente. Questo risultato ha determinato il sorpasso Asean sull’UE come primo partner commerciale di Pechino. Nei primi sei mesi del 2020, inoltre, gli investimenti bilaterali sono aumentati del 58% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’uscita della Cina dall’emergenza rispetto al resto del mondo, dunque, potrebbe rendere i paesi Asean più dipendenti da esportazioni e investimenti provenienti da Pechino. 

A sua volta, Tokyo ha avviato una cosiddetta “diplomazia sanitaria” nell’area caratterizzata da un primo finanziamento ai partner della regione per rafforzare il sistema sanitario e promuovere la ricerca sui vaccini. Al tempo stesso, Giappone e paesi Asean hanno ribadito congiuntamente le proprie preoccupazioni riguardanti le rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese orientale e meridionale. Dichiarazioni rientranti nella strategia giapponese della Free and Open Indo-Pacific (FOIP), mirante a contrastare l’espansionismo cinese attraverso il rafforzamento di una partnership economica e infrastrutturale col Sol Levante. 

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