In attesa del voto sulla Brexit, la Gran Bretagna mette a segno un punto nella contesa con l’Europa. La Corte di giustizia europea ha stabilito che il Regno Unito può negare l’accesso alle prestazioni sociali (si parla soprattutto di assegni familiari) ai cittadini comunitari che non hanno il permesso di soggiorno in territorio britannico. Il caso era stato portato all’attenzione della Corte dalla Commissione europea.
I giudici ammettono che si tratta di una discriminazione indiretta – come sostenuto dall’Esecutivo Ue –, ma sostengono che sia giustificata dalla necessità da parte di Londra di proteggere le proprie finanze pubbliche.
Gli assegni familiari e il credito d’imposta per i figli a carico, infatti, sono prestazioni finanziate non tramite i contributi dei beneficiari, ma attraverso le imposte. Per poter beneficiare di queste prestazioni, la normativa britannica prevede che il richiedente rispetti tre requisiti: oltre a essere titolare di un permesso di soggiorno, deve avere la propria residenza abituale e trovarsi fisicamente nel Regno Unito.
Il premier britannico David Cameron aveva in passato insistito sulla necessità di poter limitare le misure di welfare a favore dei cittadini di altri Paesi Ue, così da diminuire anche il peso dell’immigrazione intra-europea.
La sentenza della Corte di giustizia europea, per quanto controversa, potrebbe avere un peso negli ultimi giorni di campagna elettorale prima del referendum del 23 giugno. Di fatto, la sentenza spunta una delle principali armi in mano al fronte pro-Brexit, che chiede di uscire dall’Ue anche per ridurre il numero d’immigrati e tutelare lo Stato sociale britannicO.
A fine mattinata, anche la Commissione Ue ha commentato la sentenza della Corte di giustizia Ue sui diritti sociali: indica che l’accordo definito dai capi di Stato e di Governo a fine febbraio con la Gran Bretagna è pienamente legittimo, ha detto il portavoce dell’esecutivo comunitario. La Commissione ha perso la causa presso la Corte ma il portavoce ha indicato che all’epoca dei fatti non c’era la necessaria chiarezza giuridica. In ogni caso, la sentenza conferma che “la libera circolazione delle persone non significa automaticamente libero accesso ai diritti sociali di ogni singolo paese.