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Ue nella babele delle lingue: ce ne sono 24 ufficiali e 5 semi-ufficiali ma l’inglese è la lingua principe

Il glottologo Daniele Vitali spiega com’è cambiato nell’Unione europea il regime linguistico dopo l’allargamento a 27 Stati e qual è oggi la gerarchia delle lingue

Ue nella babele delle lingue: ce ne sono 24 ufficiali e 5 semi-ufficiali ma l’inglese è la lingua principe

Daniele Vitali, glottologo ed autore di goWare, ci ha portato in un suo precedente intervento su FIRSTonline all’interno del dibattito che si è sviluppato intorno alla questione del regime linguistico dell’Unione europea fino alla caduta del muro di Berlino, che costituisce un punto di svolta nella storia dell’Unione e della stessa Europa.

Ora Vitali ci porta dentro il dibattito che ha avuto luogo dopo quell’evento che ha visto accadere quello che si è definito il grande allargamento dell’Unione europea. Dai 12 Stati membri del 1989 si è passati ai 27 Stati del 2023. Adesso sono 24 le lingue ufficiali dell’Unione europea e 5 quelle semi-ufficiali.

L’inglese come lingua originale

Poiché nel 1989 il Muro di Berlino era stato smantellato dai tedeschi orientali a suon di giubilanti scalpelli, nel 2004 entrarono nell’UE ben 10 nuovi Stati membri, portando in dote 9 lingue, ossia ceco, estone, lettone, lituano, ungherese, maltese, polacco, slovacco e sloveno (Cipro non portò alcuna lingua nuova, avendo come idioma ufficiale il greco; si era pensato che sarebbe arrivato il turco, ma i greco-ciprioti rigettarono con referendum l’accordo di riunificazione del paese, così che la parte nord dell’isola rimase fuori e con essa i turco-ciprioti e la loro lingua).

Da quel momento, quasi tutti i documenti prodotti dalla Commissione ebbero l’inglese come lingua originale: anche se si metteva mano a direttive che in passato avevamo tradotto dal francese, noi traduttori italiani ricevevamo le modifiche in inglese, perché la versione inglese di quella direttiva era diventata il nuovo originale.

Resta anche il plurilinguismo

Le altre istituzioni, come il Parlamento o i Comitati, mantennero un maggiore plurilinguismo poiché come detto i loro membri hanno il diritto di esprimersi nella propria lingua, ma alla Commissione, dove a parte i Commissari di nomina politica ci sono solo funzionari di carriera, si è quasi smesso di lavorare in altri idiomi.

Però questo riguarda il funzionamento interno: per i cittadini non cambia nulla, ossia tutte le direttive e gli altri atti normativi vengono tradotti in tutte le lingue ufficiali, affinché ad esempio i produttori di latte italiani possano leggere le regole UE in italiano (e magari persino applicarle).

Intanto il novero delle lingue ufficiali si è ulteriormente allungato: nel 2007 sono arrivate la Bulgaria e la Romania, e con loro il bulgaro e il romeno. Infine, nel 2013 pure la Croazia ha aderito all’UE, portando con sé il croato.

Le lingue meno diffuse e minoritarie

Anzi, niente “infine”, poiché nel frattempo l’Irlanda, visto che l’UE aveva riconosciuto il maltese parlato da soli 300.000 abitanti, ha chiesto di riconoscere pure l’irlandese. Ciò ha rappresentato un bel grattacapo per le istituzioni europee, che hanno dovuto trovare interpreti (per tradurre le riunioni) e traduttori (per i documenti scritti) in lingue poco diffuse.

È stata un’avventura impegnativa anche per il personale assunto, chiamato a creare di sana pianta la terminologia necessaria per volgere in due lingue prevalentemente orali tutto il complesso e stratificato impianto della legislazione europea.

Quest’attività ha avuto ricadute positive sull’interesse di irlandesi e maltesi per la loro lingua: adesso che anche il gaelico e il maltese offrono possibilità occupazionali, c’è stato un lusinghiero aumento degli studenti nelle facoltà di filologia dei rispettivi paesi.

Le lingue semiufficiali

Aggiungiamo pure che a un certo punto la Spagna ha chiesto che venisse riconosciuta ai suoi parlamentari europei e ministri baschi, catalani o galiziani la possibilità di parlare la propria lingua: questo status di “lingue semi-ufficiali”, che prima dell’autolesionistico addio del Regno Unito era garantito anche al gallese e al gaelico scozzese, consente insomma l’uso di un certo numero di “lingue minoritarie”, purché lo Stato membro interessato avvisi per tempo prima della riunione e copra il costo degli interpreti. Difficile pensare che un’organizzazione funzionante in 24 lingue ufficiali e 5 semi-ufficiali discrimini proprio la lingua italiana. Senza considerare un’altra cosa, ossia che l’assoluto predominio dell’inglese, deprecabile quanto vogliamo dal punto di vista del plurilinguismo, non è stato imposto da nessuno, ma è dovuto a una situazione di fatto.

L’inglese dopo la Brexit

Diverse volte mi è stato chiesto perché, con l’uscita del Regno Unito, l’inglese sia rimasto fra le lingue ufficiali dell’Unione europea. La domanda è sensata, dal momento che le ex colonie britanniche Irlanda e Malta hanno la propria lingua nazionale.

Ebbene, la base giuridica per mantenere l’inglese è data dal regolamento n. 1 del 1958 come modificato nel 1973, che non è stato emendato. Inoltre, solo una minoranza degli irlandesi parla gaelico, e quindi ci sarebbe il problema che il resto della popolazione non può comunicare con le istituzioni europee se non in inglese.

Va aggiunta una questione eminentemente pratica: in che lingua dovrebbero parlare fra loro i funzionari europei per mandare avanti il lavoro di tutti i giorni? Se ad esempio si optasse per il francese, oltre al grave problema che questa scelta avrebbe serie ripercussioni sulla cistifellea dell’ex ministro Ronchi, ci sarebbe anche quello di portare tanti dipendenti dell’UE allo stesso livello di conoscenza di quella lingua che hanno attualmente dell’inglese. Ci vorrebbero cioè degli anni.

Francese, tedesco o esperanto?

Certo, si potrebbe pensare a soluzioni più semplici, a partire dall’esperanto, lingua pianificata lanciata nel 1887 con l’obiettivo di farne lo strumento di comunicazione internazionale dell’intera umanità. Sebbene i numeri siano molto inferiori alle aspettative nutrite a suo tempo dall’ideatore L.L. Zamenhof, il massimo numero di persone che lo parlano si trova proprio in Europa.

Poiché la lingua fu concepita in modo da essere molto facile da imparare (e quindi da parlare correttamente) rispetto a qualunque lingua nazionale, inglese compreso, il compito d’insegnare l’esperanto ai funzionari europei sarebbe molto più semplice che addestrare tutti nella lingua di Molière o in quella di Goethe: probabilmente basterebbero pochi mesi.

Ci sarebbe però il problema che in Europa non ci sono solo i dipendenti delle istituzioni, ma 450 milioni di abitanti, i quali compiono ogni giorno un notevole sforzo, anche economico, per imparare i 20 fonemi vocalici, la bizzarra ortografia, i verbi frasali, l’uso progressivo delle forme in ing, le frasi idiomatiche e il lessico in costante mutamento dell’inglese.

L’inglese che resta

Se si volesse spiegare a tutte queste persone che l’Europa deve avere la propria lingua ufficiale e che quindi da oggi in poi occorre imparare l’esperanto, ci vorrebbe un notevole sforzo pedagogico, e non sembra che i nostri politici (molti dei quali robustamente digiuni di politica linguistica) siano disposti a compierlo.

Va poi notato che l’inglese continuerebbe a servire anche a un’Europa unificata e con la propria lingua ufficiale comune: si dovrebbe infatti ancora commerciare, negoziare e comunicare con gli Stati Uniti, la Cina, l’India, un giorno forse di nuovo la Russia e così via. Ecco perché la legge dell’inerzia ha fatto sì che nulla sia cambiato a livello linguistico dopo la/il Brexit.

“La lingua dell’Europa è la traduzione”

Questa famosa frase di Umberto Eco fotografa ancora la realtà: malgrado il defatigante e dispendioso sforzo degli europei per imparare l’inglese, a dispetto dei visibili progressi di questa lingua in tutti i paesi, e nonostante il suo predominio nei rapporti fra persone di lingue diverse, i popoli europei continuano a sentirsi maggiormente a proprio agio nella propria lingua.

Ecco perché l’UE, pur coprendo un solo continente, ha più lingue ufficiali dell’ONU, che riunisce il mondo intero ma si limita a usare arabo, cinese, inglese, francese, russo e spagnolo: contrariamente alle Nazioni Unite, che sono un’organizzazione internazionale e dunque largamente intergovernativa, l’Unione europea ha un rapporto diretto con i propri cittadini, che devono poterne capire le norme.

Di qui la necessità di traduttori e interpreti, categoria che finora ha prodotto risultati ben più concreti rispetto a quella degli alfieri e paladini dell’orgoglio nazionale ferito

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Daniele Vitali, bolognese, è stato per anni traduttore alla Commissione europea. Ha al suo attivo vari lavori di glottologia su lingue e dialetti, fra cui “Ritratti linguistici: il romeno” (Inter@lia 2002), “Parlate italo-lussemburghese? Appunti sulla lingua degli italiani di Lussemburgo” (Inter@lia 2009), “Pronuncia russa per italiani” (con Luciano Canepari, Aracne 2013), nonché il grande “Dizionario Bolognese-Italiano Italiano-Bolognese” (Pendragon 2007 e 2009, con Luigi Lepri), “Dialetti emiliani e dialetti toscani. Le interazioni linguistiche fra Emilia-Romagna e Toscana” (Pendragon 2020) e “Mé a dscårr in bulgnaiṡ. Manuale per imparare il dialetto bolognese” (Pendragon 2022).

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