L’ultimo Consiglio europeo straordinario ha impresso un’accelerazione notevole ai piani europei di convergenza verso una politica di difesa comune. Il pacchetto predisposto dalla Commissione guidata da Ursula von der Leyen, denominato ReArm EU, con 800 miliardi da spendere per le produzioni belliche ha ottenuto un primo ok di massima da tutti gli Stati membri. Il prossimo appuntamento, che probabilmente scenderà più nei dettagli, è fissato al Consiglio europeo del 20 e 21 marzo.
La scossa data all’Europa sembra essere così forte da aver innescato una nuova fase politica di integrazione europea, questa volta sul terreno della cooperazione militare. Riccardo Sessa è presidente della prestigiosa Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (Sioi) e nella sua lunga carriera diplomatica è stato ambasciatore a Belgrado, Teheran, Pechino, rappresentante permanente italiano alla Nato, oltre ad essere stato strettissimo collaboratore nelle varie esperienze ministeriali e di governo del presidente Giulio Andreotti.
Ambasciatore Sessa, qual è il valore politico di quest’ultimo Consiglio Europeo?
“La consapevolezza acquisita dall’Europa che la difesa comune completa il suo processo storico di costruzione. L’accelerazione in questa direzione l’ha data il sempre più chiaro disimpegno americano, o se vogliamo chiamarlo in un altro modo, la ridefinizione del ruolo degli Stati Uniti all’interno della NATO e nei confronti dell’Europa”.
Il processo di integrazione riprenderà non più su un tema economico ma con il ReArm EU.
“La dimensione militare rientrava già nel disegno iniziale dei padri fondatori dell’Europa. Alcide De Gasperi era ben consapevole però che la dimensione militare europea avrebbe richiesto decenni e si sarebbe costruita solo quando sarebbe stata avvertita come un’esigenza primaria dai cittadini europei, non solo dalle classi politiche. Oggi lo è diventata sotto una duplice spinta: quella degli Stati Uniti, ma anche grazie a Putin, lo stesso che ha rivitalizzato l’Alleanza Atlantica, tra le braccia della quale si sono precipitati prima la Finlandia e poi la Svezia. Qualche tempo fa ho sostenuto che a Putin avrebbero dovuto fare un monumento equestre di fronte al quartiere generale della Nato, oggi dovrebbero fargliene uno anche in Rue de la Loi, davanti agli edifici della Commissione Europea e del Consiglio”.
Tra l’altro le grandi famiglie politiche europee sono di fatto sulla stessa linea.
“Ebbene sì. Soprattutto tra Popolari e Socialisti c’è una certa unità, che è il frutto di un consenso su ciò che può e deve unire, piuttosto che su ciò che potrebbe dividere. Ciò che può unire è semplice: organizziamoci in Europa per avere un’autonomia strategica totale. Il che vuol dire in un linguaggio ancora più semplice: essere pronti a difenderci, se necessario”.
I socialisti europei hanno scritto che stiamo affrontando la più grande minaccia per la sicurezza europea dal 1945. Sulla politica di difesa è possibile un’Europa a più velocità?
“La logica di un’Europa a più velocità diventerà sempre più importante nei futuri processi di integrazione, lo dico da vecchio europeista convinto. L’alternativa è quella di un’Europa che vivacchia accontentandosi di fare cronaca, invece che essere protagonista della storia. È finito il tempo delle ambiguità, abbiamo visto cosa ha fatto Putin in Ucraina e cosa sta continuando a fare, approfittando del disimpegno americano. Ciò può costituire una minaccia reale anche per noi europei. Al netto di chi oggi ha ancora remore a usare il nome esatto per definire ciò che Putin sta facendo”.
A chi si riferisce?
“Mi riferisco a chi pensa che la guerra sia come una partita di calcio, dove è una monetina a centrocampo a stabilire chi dà il calcio d’inizio. In guerra si sa sempre chi inizia”.
L’attivismo di Emanuel Macron sulle truppe di pace in Ucraina, sull’ombrello nucleare francese e sulle spese per la difesa fino a dove si spingerà?
“Non dobbiamo sorprenderci più di tanto del suo attivismo. Ciò vale anche per gli inglesi che appaiono tra i più decisi in questa fase, al punto di avvicinarsi con chiarezza all’Europa piuttosto che agli Stati Uniti. Se dobbiamo costruire un esercito europeo, obiettivo che non si raggiunge certo in pochi mesi, non possiamo trascurare che Francia e Gran Bretagna hanno all’incirca 500 testate nucleari, che vanno considerate già oggi nella logica di una deterrenza nucleare in chiave europea. In una fase storica così delicata gli Stati membri dovranno fare uno sforzo enorme per superare comprensibili gelosie, avendo chiaro, soprattutto tra i fondatori dell’Unione Europea, l’obiettivo comune della necessità dell’autonomia strategica”.
Tra i fondatori dell’Europa c’è l’Italia…
“Certamente, l’Italia è portatrice di grandi valori, come l’europeismo e l’atlantismo, condivisi sin dal tempo della nascita del processo comunitario e anche oggi”.
La posizione di mediazione del governo italiano tra Usa e Unione quanto potrà reggere?
“La scelta atlantica e quella europea hanno costituito per decenni i due riferimenti fondamentali della nostra politica estera e nel 1979 tali scelte sono state ribadite dal Parlamento con due risoluzioni identiche alla Camera e Senato. Il nostro Presidente del Consiglio sottolineando l’importanza della componente atlantica si muove nella continuità dell’impegno internazionale italiano. Ed è ancora più importante farlo in un momento in cui gli Stati Uniti sembrano veramente voler ridefinire il loro ruolo all’interno della Nato e dell’Europa. È evidente che noi europei dobbiamo prendere atto di questa situazione, alla quale nessuno di noi avrebbe mai immaginato che si potesse arrivare, e lo dico in questo caso da vecchio convinto atlantista”.
Ma in un simile quadro, tra l’altro, di riallineamento dei grandi partner europei, per l’Italia ha senso giocarsi pienamente la partita in Europa o nell’equilibrismo di un atlantismo che sembra invecchiato di decenni in pochi giorni?
“Ho ricordato quali siano i cardini dell’azione internazionale dell’Italia. È giusto, comprensibile, che l’Italia cerchi di ribadire la centralità di un rapporto storico con gli Usa. Ma il dramma qui è che sono proprio gli Stati Uniti che dicono agli europei, senza mezzi termini, che devono pensare autonomamente alla loro difesa. Negli ultimi due mesi tutti i principi che avevano regolato le relazioni internazionali in questi ultimi 80 anni sono stati messi in discussione e sono saltati. Io vado sostenendo che oggi il mondo si è ‘smontato’: le vecchie regole definite nel 1945 e negli anni a seguire appaiono completamente superate”.
È plausibile pensare ad un disaccoppiamento nella politica di difesa comune tra Washington e gli Stati membri dell’Unione?
“Si stanno delineando equilibri nuovi, forse una nuova Yalta. Roosevelt teneva di buon conto quello che sosteneva Stalin e anche oggi mi sembra ci sia una situazione con molte similitudini. Il disaccoppiamento? Se guardiamo le ultime dichiarazioni e le misure prese da Washington forse si sta già verificando. Certamente Trump sta imprimendo ai processi una velocità molto sostenuta, ma non dimentichiamo che anche i suoi predecessori ci richiedevano con sempre maggiore forza di pensare di più alla nostra difesa”.
La vecchia tesi secondo la quale gli Stati Uniti devono occuparsi del Pacifico…
“Da un certo punto di vista sì, in funzione anti Cina. Però come ho detto l’idea del disimpegno dall’Europa nasce ben prima di Trump. Gli americani ci hanno fatto capire in più di una circostanza che non intendono più sostenere lo sforzo enorme di una diffusa presenza militare in Europa e nel mondo. Noi ci dimentichiamo che dal 1941 gli americani mandano i propri figli in uniforme in tutti gli angoli del globo”.
In una vecchia intervista su Limes, il presidente Francesco Cossiga spiegava perché la politica estera aveva fatto perdere progressivamente influenza all’Italia. Se nel prossimo futuro l’Europa riuscirà a realizzare una sua dimensione militare, per l’Italia si apre una grande opportunità?
“L’Italia ha un ruolo da giocare in Europa e nella politica internazionale. È importante, però, mostrare coerenza e continuità, che oggi non possono che essere ancora l’europeismo e l’atlantismo, sapendo però che la solidarietà atlantica potrebbe subire dei profondi mutamenti. Dobbiamo quindi essere pronti ad assumere decisioni concrete, anche inedite, rafforzando la componente europea della nostra politica estera”.
Le forze armate italiane si devono preparare per un ruolo in Ucraina?
“Su questo punto è bene essere chiari. Lo ha detto il presidente Meloni e lo ha ribadito con la sua consueta chiarezza il presidente Mattarella: non ha senso in questo momento pensare ad una presenza militare italiana in Ucraina. Dobbiamo prima raggiungere una tregua, poi tutti vorremmo una pace, che innocentemente già definiamo giusta e duratura, sapendo che dal 1945 ad oggi non c’è stato un solo conflitto che sia terminato con un trattato di pace. Poi ancora dovremo costruire necessariamente uno schema di garanzie di sicurezza internazionale. Solo allora si potrà ipotizzare una presenza militare a garanzia. Presenza che richiederà un consenso politico europeo, a quel punto tutte le articolazioni nazionali europee dovranno organizzarsi. A mio avviso è prematuro parlare anche di presenze militari sotto l’ombrello della Nato e dell’Onu”.
Perché?
“Siamo onesti: la Nato gli americani e i russi non la vogliono e non la vorranno mai. L’Onu? Ma certo sarebbe il cappello ideale per una missione di questo genere, ma non dimentichiamo che un simile cappello deve passare per il Consiglio di sicurezza e sappiamo bene quali sono i membri permanenti di quel consiglio”.