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Ucraina e Cecoslovacchia, due invasioni di Mosca ma diverse: quella di Putin di oggi è pura volontà di potenza

Imagoeconomica

C’è un filo rosso tra i due eventi (l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968 e il fallito golpe contro Gorbaciov nel 1991) ricordati nei giorni scorsi, nell’ambito delle loro ricorrenze, da FIRSTonline. Il primo fu l’invasione del 1968 da parte delle truppe del Patto di Varsavia (La Nato dell’Impero sovietico) della Cecoslovacchia per stroncare la Primavera di Praga, ovvero il tentativo del leader del partito comunista di quel Paese, Alexander Dubcek, di costruire un regime più aperto ed orientato alla democrazia. La prospettiva di un “comunismo dal volto umano” (come si diceva allora) aveva suscitato molte speranze (e illusioni) nel mondo ancora squassato dai venti della contestazione giovanile che stavano spirando in tutto l’Occidente. Ma quell’esperienza venne ritenuta insostenibile dai despoti del Cremlino a causa degli effetti imitativi che si temeva esplodessero in tutti i Paesi del cosiddetto socialismo reale. La parola passò quindi ai carri armati. Ci vollero altri vent’anni perché quei regimi cadessero, uno dopo l’altro, come castelli di carte, dopo il crollo del Muro di Berlino il 9 novembre del 1989. Circa due anni dopo, il 21 agosto 1991, un gruppo di dirigenti “nostalgici” tentò un colpo di Stato contro Michail Gorbaciov, il leader che, con la perestrojka e la glasnost, si era reso protagonista di una riforma del sistema che, in verità, ne accelerò il crollo, perché comunismo e democrazia costituiscono un ossimoro insuperabile. Non a caso il golpe fallì, ma trascinò con sé anche gli esperimenti e le buone intenzioni di Gorbaciov e la sua leadership. Eltsin, allora sindaco di Mosca, si mise alla testa della rivolta popolare che travolse non solo i protagonisti del colpo di Stato, ma anche il regime comunista. L’Impero sovietico si frantumò nel giro di qualche mese. Si assistette ad un vero e proprio “esodo in massa” verso l’Occidente, degli Stati che dopo la Seconda guerra mondiale avevano subito la dittatura sovietica, non solo a livello delle istituzioni ma anche dei sistemi economici. E sofferto su ambedue i fronti, perché non esistono libertà politiche in assenza di libertà economiche.

Aver ricordato queste ricorrenze è importante mentre è in corso l’aggressione russa all’Ucraina. Gli ex stati satelliti sono oggi degli ostinati membri dell’Alleanza atlantica e – con l’eccezione dell’Ungheria – vedono nella Federazione russa una potenza ostile intenzionata a un’espansione imperialistica che potrebbe mettere a rischio la loro indipendenza politica ed economica. Nel 1968, l’Urss di Breznev pretendeva di imporre un regime in nome di una ideologia, di un sistema politico ed economico. Putin non agisce in nome di quell’ideologia, ma per una mera volontà di potenza. Al Cremlino non interessa esportare modelli economici, ma avere nei paesi vicini gruppi dirigenti completamente asserviti. L’armata rossa e le truppe del Patto di Varsavia non avevano, nel 1968, l’obiettivo di sterminare i cecoslovacchi per la loro nazionalità. Putin intende non solo cacciare un governo che gli ha resistito, ma annientare un popolo che a suo avviso non ha diritto di esistere con un profilo specifico, perché appartiene a un paese che non ha un’identità specifica.

Putin e la teoria della denazificazione

Secondo Putin – si veda il saggio di Nicolas Werth Putin historien en chef, dove sono raccolti i testi di scritti e discorsi dell’autocrate assassino – “la denazificazione è necessaria quando una parte significativa del popolo – molto probabilmente la maggioranza – viene dominata e trascinata dal regime nazista nella sua politica. Cioè quando l’ipotesi “il popolo è buono – il governo è cattivo” non funziona. Il riconoscimento di questo fatto è alla base della politica di denazificazione e di tutte le sue attività, e il fatto stesso ne costituisce l’oggetto. Tuttavia, oltre ai vertici, è colpevole anche una parte significativa della massa di persone che sono nazisti passivi, collaboratori del nazismo. Hanno sostenuto e assecondato il governo nazista. Una giusta punizione per questa parte della popolazione è possibile solo se si sopporta l’inevitabile peso di una guerra giusta contro il sistema nazista, condotta nel modo più delicato e discreto possibile contro i civili. L’ulteriore denazificazione di questa massa di popolazione consiste nella rieducazione, che si ottiene attraverso la repressione ideologica (soppressione) degli atteggiamenti nazisti e una dura censura: non solo nella sfera politica, ma necessariamente anche in quella della cultura e dell’istruzione. È attraverso la cultura e l’istruzione che è stata preparata e portata avanti la profonda nazificazione di massa della popolazione, consolidata dalla promessa di dividendi derivanti dalla vittoria del regime nazista sulla Russia, dalla propaganda nazista, dalla violenza e dal terrore interni e dalla guerra di otto anni con il popolo ribelle del Donbass ribelle al nazismo”.

L’approccio illiberale

Che Putin sia andato a scuola da Pol Pot? Continuiamo a leggere sempre più allibiti: “La denazificazione può essere effettuata solo dal vincitore, il che presuppone (1) il suo controllo incondizionato sul processo di denazificazione e (2) il potere di garantire tale controllo. In questo senso, il Paese denazificato non può essere sovrano. Lo Stato denazificatore – la Russia – non può procedere con un approccio liberale alla denazificazione. L’ideologia del denazificatore non può essere contestata dal colpevole sottoposto a denazificazione. Il riconoscimento da parte della Russia della necessità di denazificare l’Ucraina significa riconoscere che lo scenario della Crimea è impossibile per l’Ucraina nel suo complesso”.

La durata del processo

E quanto tempo occorrerà per la denazificazione? Non certo quello di un’operazione militare speciale. “Il periodo di tempo per la denazificazione non può in alcun modo essere inferiore a una generazione che deve nascere, crescere e maturare nelle condizioni della denazificazione. La nazificazione dell’Ucraina dura da oltre 30 anni – a partire almeno dal 1989, quando il nazionalismo ucraino ha ottenuto forme legali e legittime di espressione politica e ha condotto il movimento per l’indipendenza verso il nazismo”.

Il “camuffamento democratico” del nazismo ucraino

Ma come si è camuffato, secondo Putin, il nazismo ucraino sotto una patina democratica? “Non c’è un partito nazista principale, né un Führer, né leggi razziali a tutti gli effetti (solo una versione ridotta sotto forma di repressione della lingua russa). Di conseguenza, non c’è opposizione né resistenza al regime. Tuttavia – prosegue lo zar – tutto ciò non fa del nazismo ucraino una “versione leggera” del nazismo tedesco della prima metà del XX secolo. Al contrario – poiché il nazismo ucraino è libero da tali quadri e restrizioni di “genere” (essenzialmente politico-tecnologico), esso si dispiega liberamente come base fondamentale di tutto il nazismo – come razzismo europeo e, nella sua forma più sviluppata, americano. L’ucraino rappresenta – udite! udite! (ndr) -per la pace e la Russia una minaccia non minore, ma maggiore del nazismo tedesco di Hitler”.

Infine, quale sarà il destino di questa nazione tanto pericolosa? “Evidentemente, il nome “Ucraina” non può essere mantenuto come titolo di una formazione statale completamente denazificata sul territorio liberato dal regime nazista. Il riscatto dal senso di colpa nei confronti della Russia per averla trattata come un nemico può realizzarsi solo affidandosi alla Russia nei processi di ricostruzione, rigenerazione e sviluppo”.

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