L’hanno chiamata “operazione lumaca”. Così, ieri, centinaia di taxi hanno dichiarato (l’ennesima) guerra a Uber, l’app che permette di prenotare e pagare un’auto con autista tramite smartphone, bloccando le strade che collegano Parigi agli aeroporti di Roissy-Charles de Gaulle e di Orly. La protesta è stata lanciata per ribellarsi alla decisione del Tribunale di Commercio di Parigi che venerdì aveva respinto il reclamo delle associazioni di tassisti, stabilendo che “UberPOP (servizio più economico dove al posto di autisti professionisti e macchine di lusso ci sono persone comuni che, dopo aver superato un colloquio, possono mettere a disposizione la propria auto per un passaggio) non è illegale”.
Per disinnescare la tensione, il portavoce del ministero dell’Interno, Pierre-Henry Brandet, è immediatamente intervenuto annunciando che dal prossimo 1 gennaio 2015, con l’entrata in vigore della legge Thévenoud, il servizio di taxi online a basso costo sarà vietato. “Non solo è illegale – ha detto Brandet – ma costituisce un pericolo reale per il consumatore”. Tutto il contrario di quello sostenuto pochi giorni prima dai giudici.
L’ennesima noia dunque per la società nata nel 2010 a San Francisco e già finita nell’occhio del ciclone in altri Paesi europei, come Germania e Danimarca, e proprio ieri anche in Australia: durante l’attacco terroristico in un caffè di Sydney, le corse di Uber per uscire dal centro sono aumentate vertiginosamente (fino a 100 dollari a corsa), scatenando la furia dei clienti. La società si è giustificata addossando la responsabilità a un software automatico che innalza le tariffe quando registra più richieste e promettendo rimborsi, ma intanto l’immagine è danneggiata.
Ma Uber non intende mollare, a incominciare dalla Francia. “La recente decisione del Tribunale di Commercio di Parigi – ha comunicato – è la prima e sola decisione resa sulla base della legge Thévenoud e la decisione è quella di non sospendere UberPop. Uber continuerà anche nel 2015 ad applicarsi per innovare e offrire nuove soluzioni di trasporto che siano sicure, affidabili e accessibili”. In altre parole, la società è pronta all’ennesima battaglia legale.
Del resto è forte di una valutazione monstre, che aprirà a breve la strada a un’Ipo da record (tre volte tanto quella di Twitter, ad esempio): dopo quattro anni la startup californiana – forte anche dei finanziamenti di big come Google e Goldman Sachs – vale oltre 40 miliardi di dollari (32 miliardi di euro) e opera in 45 Paesi e 200 città, di cui 20 in Europa (Parigi è stata la prima, Padova l’ultima). Secondo il Wall Street Journal, dopo l’ultimo round di finanziamenti da 1,2 miliardi Uber avrebbe raggiunto addirittura l’astronomica valutazione di 41 miliardi di dollari, staccando nettamente AirBnB, il portale (anche lui basato in California) che consente di prenotare alloggi o appartamenti di privati per brevi periodi, fermo a “soli” 10 miliardi.
E’ inoltre notizia recente che anche il principale motore di ricerca cinese Baidu sarebbe pronto a investire nella app di Kalanick, obiettivo l’espansione del ridesharing anche nel più grande mercato asiatico. La partnership sfiderebbe l’altro protagonista di Internet in Cina, Alibaba, che ha investito nel servizio rivale e alternativo ai taxi tradizionali, Kuaidi Dache.