Arriva lo streaming OTT dei grandi gruppi TV
Ormai è sicuro: il modello di distribuzione dei contenuti media sarà lo streaming on-demand over the top. Per gli allergici al klingon, vuol dire: consumo di contenuti trasmessi attraverso il web su richiesta dell’utente pagante. Possiamo fare un’asserzione così perentoria perché è successo un fatto importante: sono arrivati i grandi gruppi televisivi USA con un’offerta prime per lo streaming dei programmi TV.
Nel frattempo è venuto a maturazione anche un altro processo che, forse, sta alla base di questa decisione: i più importanti operatori via cavo che portano il segnale televisivo a 100 milioni di americani sono diventati gli stessi che servono la connessione a banda larga necessaria a collegarsi a Internet per ricevere un servizio di streaming decente. Alcuni di questi, come Comcast, sono anche dei gruppi mediatici con interessi diretti nell’industria della produzione e distribuzione di contenuti televisivi. Cavo e Internet veloce stanno diventando un’unica inseparabile cosa. A livello infrastrutturale la convergenza c’è già. Una convergenza che toglie il sonno a parecchie persone anche nell’amministrazione Obama. Ma questo è un altro argomento e dobbiamo tornare al nostro, lo streaming TV.
Arriva HBO à la carte
Pochi giorni fa, Time Warner ha annunciato in pompa magna che renderà disponibile anche ai non abbonati al canale (e qui è il punto!), il meglio di HBO che diventerà raggiungibile dal web attraverso un servizio streaming à la carte. HBO è l’ammiraglia del gruppo di New York, responsabile di un terzo dei suoi profitti e una vera e propria macchina da soldi. Una decisione così non si era mai vista prima: sul web finora ci finiva il pattume. Ad HBO si è subito aggiunto un altro senatore della TV USA, il network CBS che trasmette tantissimi eventi sportivi, il contenuto che crea più business sulla TV a pagamento.
Senza esagerazione… si tratta di una rivoluzione copernicana come non hanno mancato di sottolineare tutti gli osservatori dell’industria dei media. La TV è la regina dei media, quella che si è difesa meglio dall’azione corrosiva di Internet, quella che fa ancora soldi veri e ha i migliori executive del settore. I migliori e anche i più spacconi. Jeff Bewkes, capo di Time Warner, ha paragonato Netflix, la testa di ponte degli OTT, all’esercito albanese che vuole conquistare il mondo, echeggiando la famosa battuta di Stalin rivolta agli alleati che a Yalta chiedevano un ruolo per il Vaticano: “Quante divisioni ha il Papa”. Zero. Quanti contenuti hanno gli OTT? Zero! Sia Stalin che Bewkes, da eccellenti materialisti, non davano peso al valore del potere spirituale o di quello virtuale nella società contemporanea.
Non avranno contenuti gli OTT, ma si stanno mangiando pezzo dopo pezzo la torta delle TV a pagamento, una torta da mezzo trilione di dollari. Sono stati anche questi morsi famelici che hanno spinto i gruppi televisivi ad allargare allo streaming web la loro offerta prime. Il che vuol dire mettersi in concorrenza diretta con gli OTT, come Netflix e Amazon, che sono dei frenemy. Sono sì dei concorrenti, ma anche i migliori e più solvibili clienti della TV tradizionale che gli vende i diritti di distribuzione e di ritrasmissione sul web dei propri prodotti.
Gli OTT hanno preso con filosofia la discesa dei grandi mammiferi della TV nella loro riserva: “Ci aiuterà a migliorare il servizio” ha detto Reed Hastings, boss di Netflix. Un bell’understanding, ma anche un modo di far sapere chi comanda davvero in quella riserva. Hastings, e non solo lui, sa che non sarà facile per i gruppi TV colmare il gap tecnologico e anche culturale che distanzia i gruppi media tradizionali dalle società nate e cresciute su Internet come Netflix. Ogni volta che i primi hanno provato a posizionarsi sul web è stato un disastro e quando ci cono riuscit,i come nel caso di Hulu, sono andati a un passo dal distruggere tutto. Qualcosa hanno imparato questi gruppi ma nel loro complesso sono distanti dalla cultura che la rete esige, come sa bene anche l’ottuagenario Murdoch che si è già scottato varie volte.
Arriva l’unblunding TV
Con lo streaming via web abbracciato dai grandi gruppi TV sta arrivando anche l’unbundling, lo spacchettamento. Il suo contrario, il bundling, è il sole nella galassia della TV a pagamento. Il modello di business della TV a pagamento è fondato sulle offerte a pacchetto come un albero nel terreno. In molti vedono il bundling come un sopruso verso i consumatori. Il senatore John McCain, già candidato presidenziale per il GOP, ha addirittura presentato un disegno di legge per toglierlo di mezzo.
Non ce n’è bisogno, lo faranno gli stessi gruppi Tv che l’hanno inventato e finora difeso all’arma bianca. Nel film Amici miei il concetto di bundling è spiegato bene nella scena nella quale il Melandri (Gastone Moschin) si reca a casa del Sassaroli (Adolfo Celi) per dirgli che si prenderà sua moglie. Sì, dice il Sassaroli, però ti pigli anche il cane, un enorme San Bernardo che tutti i giorni deve fare i bisogni alle cinque di mattina.
Finora i consumatori che desideravano vedere i programmi HBO o Showtime (i canali più popolari negli USA) dovevano acquistare un abbonamento da 100 dollari al mese che comprendeva altri 200 canali di cui non conoscevano nemmeno l’esistenza e che mai avrebbero visto comparire sul loro schermo. Io stesso che sono abbonato a Sky e passo qualche ora in televisione, dei 180 canali del mio abbonamento, ne uso continuativamente tre o quattro, Cinema 1 e 1+, Cult, Classic, Atlantic e Sky TG 24 che ha introdotto un nuovo standard d’informazione TV non lottizzata.
Questo è il bundling. Qualconda di primitivo. L’unbundling è, invece, con la sua offerta separata di singoli canali e addirittura di singoli programmi à la carte è il XXI secolo. Questa è la direzione in cui sta andando tutta l’industria televisiva. Evviva!
Streaming sul web e unbundling stanno marciando insieme e in poco tempo tutta l’offerta televisiva sarà permeata da questi due modelli.
Verso un modello ibrido
Anche se le due tendenze andranno a unificarsi, la musica e la TV si stanno muovendo in direzioni divergenti. La musica sta passando dal modello dominante à la carte (iTunes), in calo, a un modello di abbonamento omnicomprensivo (Spotify), in crescita. La TV invece sta avviandosi su un percorso inverso, dal modello tutto in uno (TV via cavo) al modello a scelta multipla dove si paga quello che si consuma effettivamente. Verso questo modello, sicuramente, si orienteranno tutti i consumatori che si sentono intrappolati nel bundling e soprattutto il pubblico più giovane che si tiene lontano di modelli costosi della Pay TV.
Nel lungo periodo avremo un modello ibrido come in genere avviene in tutti gli ecosistemi orientati al consumatore. Di fatto torneremo al modello distributivo dei giornali ai tempi d’oro dei mass-media. I consumatori forti e quelli con maggiori disponibilità economiche acquisteranno l’abbonamento per accedere senza limiti a un contenuto e consumarlo anche parzialmente; i consumatori più occasionali, o attenti al budget, acquisteranno al volo il contenuto per fruirlo rapidamente scegliendolo da un’offerta immensa costituita dai cataloghi dei produttori di contenuti. Infine ci sarà, come avveniva per i giornali, un’area limitata e contingentata ad accesso gratuito che servirà a trovare nuovi clienti e a raggiungere un pubblico erratico in luoghi di mobilità o di ritrovo.
Verso i monopsony
Paul Krugman, alla cerimonia del ritiro del Nobel per l’economia, ha scritto un articolo sul NYTimes molto critico verso Amazon e i potenziali monopsony della rete. Gli ha fatto econ Peter Thiel affermando che i monopoli sono il prodotto inevitabile del web e si ci può fare poco.
Ecco l’ennesimo paradosso della new economy, che è la fabbrica dei paradossi. Proprio il modello distributivo dei giornali fatto a pezzi Internet, è stato resuscitato, come Lazzaro, per candidarsi a modello distributivo dominante dei contenuti digitali.
Non solo per la TV e la musica. Film, libri e anche i videogiochi verranno portati ai consumatori nello stesso modo, cioè attraverso un modello ibrido di consumo operato da pochi giganteschi hub multipodotto e multimodello, motorizzati dalla tecnologia e dai big data, che a tutti gli effetti saranno dei monopoli distributivi totalmente orientati al consumatore e controllati attraverso i social media, non tramite le regolamentazioni governative. Questo con buona pace di Paul Krugman che ha scritto un articolo, Amazon’s Monopsony Is Not O.K, contro questo tipo di evoluzione chiedendo l’intervento dell’antitrust. I consumatori sono proprio sicuri di volerlo?