Non c’è solo Unicredit, tra le aziende italiane, ad aver paura della crisi della lira turca, che venerdì è crollata perdendo fino al 20% del proprio valore in un solo giorno e precipitando al minimo di sempre nei confronti del dollaro. Un tonfo che ha preoccupato non poco i mercati, a incominciare proprio dalla banca di piazza Gae Aulenti, che nell’ultima seduta della settimana, pochi giorni dopo aver pubblicato dei conti semestrali molto positivi, con gli utili oltre i 2 miliardi di euro, ha perso quasi il 5%. Non è un mistero che Unicredit sia parecchio esposta in Turchia: nella sua orbita c’è Yapi Kredi, la quarta banca turca per dimensioni, che controlla assieme alla famiglia Koc (gli Agnelli del Bosforo). Anche se questa banca dovesse del tutto scomparire, ipotesi comunque parecchio improbabile, il danno per l’istituto italiano sarebbe tutto sommato contenuto: non più di 40 punti base sul common equity tier 1, più o meno quel che sta costando alla banca l’aumento dello spread tra Btp e Bund negli ultimi mesi, a causa dell’incertezza politica. Un danno, al netto delle tasse, che la stessa Unicredit ha quantificato in poco meno di 100 milioni di euro.
Unicredit però non è l’unica grande società esposta a Istanbul e dintorni. L’insieme delle banche italiane è esposto per quasi 15 miliardi di euro (16,9 miliardi di dollari) verso la Turchia, e salgono a 16 se si includono le garanzie. E’ quanto emerge dai dati della Banca dei regolamenti internazionali, che funge da “banca centrale delle banche centrali”. Gli istituti di credito del nostro Paese vengono comunque dopo la Spagna (71 miliardi di euro), la Francia (33 miliardi), la Gran Bretagna (16,5 miliardi) e gli Stati Uniti (15,6) oltre alla Germania (14,8 miliardi). In totale l’esposizione delle banche internazionali verso la Turchia è pari a 264,9 miliardi di dollari. Poi ci sono le grandi imprese, da Fca a Leonardo, da Pirelli a Salini Impregilo: la Turchia è da anni un mercato importante per le imprese italiane, con un interscambio totale che sfiora i 20 miliardi di euro. Un “mercato prioritario” per l’export italiano, lo definisce la Sace, la società di assicurazioni degli esportatori: nel 2017 la Turchia è stato il nostro quinto partner commerciale (+11,1% rispetto al 2016): 11,3 miliardi di dollari in esportazioni e 8,5 miliardi di dollari in importazioni e una quota di mercato del 5,1%.
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Fca ad esempio è presente da decenni con lo stabilimento di Bursa-Tofas (Istanbul), con decine di migliaia di veicoli prodotti. Da cinquant’anni è in Turchia anche Pirelli, che ha concentrato la produzione nello stabilimento di Izmit, a 100 chilometri da Istanbul, costato 170 milioni di euro di investimenti negli ultimi anni, la produzione di due milioni di pneumatici industriali l’anno destinati ai mercati di Europa, Medio Oriente e Africa. Cementir ha investito in Turchia dal 2001 oltre 530 milioni di dollari acquisendo Cimentas e Cimbeton. Anche Leonardo, tramite Alenia Aermacchi, è in qualche modo toccata dalla crisi turca in quanto contribuisce alla produzione dell’F-35 (che vede 30 ordini dalla Turchia con opzione per altri 70 velivoli) e partecipa a una commessa importante, 30 elicotteri da parte di Turkish Aerospace al Pakistan. Tanti i progetti italiani in Turchia, a partire dal comparto infrastrutture-costruzioni-logistica: come quelli di Salini Impregilo nella costruzione di due autostrade, la Kinali-Sakarya e la Tarsus-Adana-Gaziantep, in un impianto idroelettrico, nella linea ad alta velocità che collega Ankara ad Istanbul, nella depurazione delle acque a Istanbul.