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Turchia: la crescita rallenta e colpisce l’export Ue

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Negli ultimi due anni la Turchia è costantemente sotto i riflettori. La rapida successione di eventi è iniziata con il tentativo di colpo di Stato fallito nel luglio 2016, con il calo della fiducia dei mercati e una breve contrazione economica, ponendo le basi per un cambiamento costituzionale approvato dal referendum indetto lo scorso anno, grazie al quale la figura presidenziale potrà usufruire di più potere esecutivo. Nel frattempo, l’economia del Paese ha beneficiato di una risposta di politica fiscale rapida e forte, costituita da agevolazioni fiscali, incentivi all’occupazione e misure di sostegno al credito: ciò ha portato a una forte ripresa, e la Turchia ha registrato un impressionante tasso di crescita del PIL reale del 7,4% nel 2017. Tuttavia, gli sviluppi recenti hanno preso un’altra piega, dal momento che il motore economico turco si sta chiaramente surriscaldando e sta iniziando a vacillare: l’inflazione primaria al 12,15% registrata a maggio è molto al di sopra dell’obiettivo della Banca Centrale fissato al 5%. E il fatto che l’inflazione core sia persino superiore a quella complessiva riflette l’impatto della forte domanda interna, senza contare che il livello dei prezzi è trainato verso l’alto anche dalla svalutazione della moneta con l’aumento dei costi delle importazioni. 

Nei mesi precedenti alle ultime elezioni sono state introdotte nuove misure di stimolo fiscale per rafforzare il sentiment economico: lo slancio, tuttavia, sta mostrando segni di rallentamento, così come la crescita del credito del settore privato, precedentemente gonfiata, si sta fortemente ridimensionando. L’indice del gestore degli acquisti manifatturiero (PMI) è sceso sotto la soglia dei 50 punti in aprile e maggio di quest’anno, indicando una contrazione dell’attività. Per il 2018 Oxford Economics prevede che la crescita del PIL reale rallenterà al 4,0% e, indipendentemente dalla vittoria del presidente Erdogan nel primo turno delle elezioni tenutesi il 24 giugno, le turbolenze saranno ben lungi dall’essere concluse. La stabilità di un’economia come quella turca richiede infatti un’unità di intenti, finora mancante, tra politica fiscale e monetaria. La situazione attuale, dove le misure tardive di politica monetaria da parte della Banca Centrale stanno cercando di compensare l’eccessivo stimolo fiscale del governo, non rappresenta un mix ottimale: le principali conseguenze si stanno riversando sulla volatilità dei tassi di cambio e sull’afflusso di capitali in entrata. 

La Turchia è nota per essere resistente agli stress test del mercato e alla pressione sui tassi di cambio, ma anche ad essere molto vulnerabile se a un certo punto i mercati finanziari decidessero di voltarle le spalle. A causa di un basso tasso di risparmio, l’economia turca è dipende fortemente dagli afflussi di capitale, in questo caso principalmente a breve termine e di natura altamente volatile (investimenti di portafoglio). La crescita trainata dal credito ha infatti aumentato le elevate esigenze di finanziamento esterno: e dal momento che il Paese è un grande importatore di petrolio, l’aggravarsi del prezzo del petrolio va ad aggiungersi al disavanzo delle partite correnti, che dovrebbe raggiungere quest’anno il 7,1% del PIL. Dopo un anno relativamente stabile come il 2017, nel corso degli ultimi mesi alcune controverse dichiarazioni di politica economica espresse dall’attuale amministrazione che hanno alimentato dubbi sull’indipendenza della Banca Centrale si sono aggiunte al più del 20% di deprezzamento nominale della lira rispetto al dollaro, anche a causa del ciclo di inasprimento della politica monetaria negli USA e delle tensioni geopolitiche. Il deprezzamento della lira si è infine arrestato quando l’Autorità monetaria ha aumentato i tassi di 300 punti base in una riunione di emergenza presentando una semplificazione del quadro di politica monetaria multi-tasso. A questo è seguito un ulteriore rialzo dei tassi di 125 bps nel corso della riunione ordinaria che ha portato il tasso di riferimento al 17,75%. Nonostante queste misure, fino a quando l’inflazione si manterrà su livelli elevati e la politica monetaria verrà esposta alla pressione politica e ai rialzi dei tassi della Fed, persisterà il rischio di ulteriori deprezzamenti. 

Il deprezzamento della lira è una cattiva notizia per i partner commerciali della Turchia. Mentre una valuta più debole rende il Paese più competitivo rispetto ai partner internazionali e sostiene la crescita delle esportazioni locali, l’aggravarsi dei costi si ripercuoterà sulla domanda di beni e servizi provenienti dall’estero. Il deprezzamento ha già spinto il prezzo medio annuo delle importazioni del 25% e, sulla base delle esperienze passate, ciò influenzerà la crescita delle importazioni turche con un ritardo di circa sei mesi. Inoltre, il rallentamento dell’economia locale ridurrà ulteriormente la crescita delle importazioni. L’UE nel suo complesso rappresenta ancora il principale fornitore della Turchia con circa il 37% e potrebbe rivelarsi a questo punto il mercato più colpito. E, con un aumento generale dei prezzi delle importazioni e lo stallo dei negoziati per modernizzare l’unione doganale con la UE, la Turchia potrebbe allora spostare la domanda per beni e servizi meno costosi verso Cina, Russia e Medio Oriente.  

Oltre alle aspettative legate alla debolezza della domanda, i partner commerciali europei dovrebbero preoccuparsi anche della salute finanziaria delle società turche con cui si trovano ad operare. Il debito estero, in gran parte detenuto dal settore privato (vale a dire banche e imprese), è considerato sostenibile dal FMI, ma si attesta su livelli elevati. Il debito estero totale del Paese supera il 200% delle esportazioni di beni e servizi, senza dimenticare i rischi legati a tasso d’interesse, rollover e cambio. Il FMI calcola che, qualora la lira venisse deprezzata permanentemente del 30%, il debito supererebbe l’80% del PIL entro il 2023. Le società non finanziarie in particolare corrono un rischio valutario notevole con circa la metà dei prestiti (circa il 70 % del PIL) denominata in valuta estera, mentre le attività in valuta estera (FX) coprono solo il 40% circa delle passività in valuta. Tuttavia, i timori di roll-over sono in qualche modo mitigati dal fatto che la maggior parte del debito delle obbligazioni societarie è a lungo termine, con scadenze superiori a 5 anni. Sebbene le passività valutarie corporative a breve termine non siano trascurabili (circa il 12% del PIL), sono interamente coperte da attività a breve termine. 

Una diminuzione del valore dei guadagni della lira locale rende più difficile il rimborso dei prestiti in dollari per le società non finanziarie altamente indebitate e ciò influisce su alcuni settori più di altri. In questo contesto i settori con i più elevati livelli di indebitamento, come energia e produzione manifatturiera, rappresentano proprio i comparti più rilevanti per i principali partner commerciali stranieri, dal momento che la maggior parte delle importazioni turche rientra nelle categorie di prodotti correlati dei materiali grezzi, combustibili, prodotti chimici, macchinari e attrezzature e produzione di base. Lo stesso vale per il turismo, in particolare per alberghi e alloggi. E, sebbene il deprezzamento della lira in corso non abbia ancora causato problemi diffusi, sono emersi i primi casi di società turche in difficoltà finanziarie: due grandi multinazionali come Dogus Holding e Yildiz Holding hanno chiesto alle banche miliardi di dollari per la ristrutturazione del debito. E ciò potrebbe però essere solo la punta dell’iceberg. Detto questo, le banche turche sono ancora in condizioni relativamente solide e non sono direttamente esposte al rischio di cambio, dal momento il sistema bancario è ben regolato e ben capitalizzato con un coefficiente di adeguatezza patrimoniale del 16%. Gli stress test effettuati dall’FMI nella valutazione di settore 2017 indicano come il comparto bancario sia resiliente agli shock e solo nel caso di una recessione profonda e protratta si presenterebbero esigenze di ricapitalizzazione. In tal caso, un debito pubblico al di sotto del 30% del PIL lascerebbe un po’ di spazio al sostegno statale. 

Tuttavia, ci sono due modi indiretti per cui le banche potrebbero essere colpite dal persistente deprezzamento della lira. Il primo, tramite un aumento del rischio di default per le società che detengono il debito estero, con la conseguenza di aumentare i prestiti in sofferenza. Il secondo e più dirompente è il momento in cui le banche turche potrebbero iniziare a riscontrare difficoltà nel rifinanziamento a breve termine su cui fanno affidamento per estendere il credito interno: l’elevato rapporto tra prestiti e depositi del 148% registrato nel 2017 sottolinea l’elevata dipendenza dai finanziamenti del mercato esterno. Le banche commerciali turche detengono circa 76 miliardi di dollari di debito estero a breve termine, circa il 10% delle proprie passività totali: sono quindi suscettibili all’aumento dei tassi di interesse globali e la possibilità di uno stop improvviso dei flussi di capitale in entrata. 

La Banca Centrale turca negli ultimi mesi sta cercando di affrontare questi rischi, non solo attuando misure restrittive di politica monetaria, ma anche attraverso misure introdotte per limitare i prestiti in valuta da parte delle PMI. Tuttavia, come ribadito dal focus Atradius, ciò non affronta il problema fondamentale di un tasso di risparmio troppo basso e una debole crescita della produttività. Sarebbe molto meglio per l’ambiente economico e imprenditoriale se, dopo le elezioni, fosse finalmente data priorità alle necessarie riforme strutturali. 

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