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Tunisia, mina vagante per il Mediterraneo e per l’Europa: non basteranno i soldi a fermare il flusso di migranti

Pixabay

C’era stata una volta la Rivoluzione dei Gelsomini e il paese africano più stimato e coccolato d’Europa, l’unico che si era incamminato lungo la via della democrazia dopo la devastazione e le guerre civili provocate dalle Primavere arabe. Si chiamava (e si chiama ancora) Tunisia, ma di quel Paese che voleva sfidare l’Occidente sul suo terreno, politico, sociale ed economico, è rimasto solo l’ombra.

Oggi la Tunisia cerca solo di rimanere a galla, dopo essere precipitata in una crisi economica che non accenna a diminuire.

Gendarme dell’Europa

Ed è per questo che ha accettato il ruolo di gendarme che l’Italia e la Ue hanno disegnato per lei. In cambio ovviamente di denaro contante. Una Turchia molto più vicina.

Per ora ha ricevuto centocinquanta milioni senza condizioni, stanziati dall’Unione Europea, con la promessa di aggiungerne altri 900, vincolati però all’attuazione delle riforme richieste dal Fondo Monetario Internazionale.

Dovranno servire per rafforzare i confini marittimi del Paese affinché siano bloccati i flussi dei migranti verso l’Europa e, soprattutto, verso l’Italia. Perché dei 53mila migranti sbarcati sulle nostre coste da inizio anno, più della metà sono partiti dalla Tunisia. In maggio questo flusso è diminuito, forse a causa del maltempo, ma è certo che, ora che l’estate è scoppiata, riprenderà a ritmo serrato.

È quasi certo però che questi fondi non saranno sufficienti.

Gli analisti più esperti temono che non si avrà l’effetto sperato e per dimostrarlo si rifanno all’esperienza della Libia, che, nel 2017, ebbe finanziamenti per il medesimo scopo. Le milizie libiche, in effetti, riuscirono a ridurre gli sbarchi, anche utilizzando, spesso e volentieri, mezzi feroci: prigione, violenze, rapine, stupri. Ma al netto del giudizio morale (e politico) quella gestione fu possibile perché praticata proprio dalle milizie.

In Tunisia le milizie non esistono, la gestione delle migrazioni è molto più frammentata. I flussi sono gestiti da tanti “fornitori” per cui la sorveglianza è molto più difficile. È probabile quindi che gli aiuti dell’Europa, pari secondo gli esperti al 6% del Pil del Paese, serviranno alla Tunisia più per rimanere in piedi, evitando il collasso economico, che per frenare le partenze dei disperati. Sebbene, in realtà, i due problemi siano connessi, perché quanto più la Tunisia si salva, tanto meno ci sarà la spinta a scappare dal Paese.

I dati economici, infatti, non fanno sconti: l’inflazione è due cifre, la disoccupazione sfiora il 20% con picchi del 40% nelle fasce giovanili, il valore dei salari reali è in picchiata.

Isis ha messo in ginocchio il paese

Ma che cosa è accaduto per arrivare a questa situazione? Perché la Tunisia in dodici anni ha consumato (quasi) tutto il suo tesoretto democratico?

È successo che il piccolo Paese, 12 milioni di abitanti, tanto deserto, è stato preso di mira dai terroristi islamici che avevano perso la guerra in Iraq e Siria. La Tunisia era una bella sfida per chi voleva sovvertire le regole degli “infedeli” e proprio nel Paese che essi adoravano.

Così gli attentati contro i turisti si sono susseguiti dal 2015 in poi a ritmo serrato e hanno prodotto un danno enorme all’economia, facendo diminuire del 30% il numero di turisti complessivi, del 50% di quelli provenienti dall’Europa. Vale a dire l’Isis ha messo in ginocchio il Paese.

Perché tanto accanimento terroristico sulla Tunisia?

Per la fragilità ovviamente della giovane democrazia, ma soprattutto perché essa è la patria di molti “foreign fighters” andati a combattere in Iraq, in Siria e in Libia. I miliziani tunisini sono stati tra i 5mila e gli 8mila, e sono arrivati a ricoprire ruoli di rilievo all’interno della gerarchia politico-militare dell’Isis. Una volta sconfitta, l’organizzazione ha lasciato che questi combattenti tornassero a casa, indicando di mettere a frutto nel circuito radicale locale l’esperienza sul campo e l’autorevolezza acquisite.

La morte dell’anziano presidente Essebsi, deceduto nel 2019, il primo a essere eletto democraticamente, è parso essere l’inizio temporale del nuovo corso della Tunisia.

La salita al potere di Kais Saied

Lo ha sostituito l’attuale presidente, Kais Saied, 65 anni, professore universitario, del quale tutti diffidano in Europa, ma del quale nessuno vuole fare a meno.

Ha vinto le elezioni battendo un ricco e noto imprenditore, Nabil Karoui, proprietario della principale catena televisiva tunisina, Nessma Tv, di cui uno degli azionisti si dice sia la famiglia Berlusconi, e che al momento del voto era in prigione per riciclaggio di denaro sporco. Senza formazione politica, Kais Saied è soprannominato “Robocop” per le sue caratteristiche fisiche e il suo discorrere monotono. Parla con una voce timbrata, un ritmo ascetico e si esprime in un arabo letterario. Ovviamente parla anche il francese, lingua dei vecchi coloni. A votarlo sono stati soprattutto i giovani laureati.

Approfittando anche della pandemia di Covid, nel 2021 si è attribuito pieni poteri costituzionali, ha revocato i membri del governo e congelato le attività del parlamento, quindi lo ha sciolto. L’anno scorso, infine, ha fatto adottare, tramite referendum, una nuova Costituzione caratterizzata da un forte potere esecutivo, il suo ovviamente. E per non farsi mancare niente, ha riportato l’Islam a fonte del diritto. Dal canto loro i tunisini hanno reagito, come spesso fanno gli elettori anche in Occidente di fronte a scenari non condivisi, disertando le urne. Al referendum hanno votato solo 3 su 10, secondo le stesse fonti del governo; mentre alle ultime elezioni, le parlamentari del 19 dicembre 2022, ha votato solo l’8,8% degli aventi diritto. Addio democrazia rappresentativa.

Ne è seguito un periodo di “torbidi”, iniziato nel gennaio scorso, in cui hanno ripreso le proteste di piazza, guidate dal sindacato Ugtt che pure aveva contribuito a far eleggere Kais Saied. E si sono susseguiti pure i provvedimenti repressivi, di cui ha fatto le spese anche la segretaria generale della Confederazione europea dei sindacati, Esther Lynch, espulsa dalla Tunisia dopo aver partecipato a una protesta contro la repressione e per i diritti dei lavoratori. Sono stati arrestati i giornalisti che criticavano il governo, messo il bavaglio alle reti televisive.

Per tutti questi motivi oggi la Tunisia è stata declassata da Paese “libero” a “parzialmente libero”, secondo la classifica della Ong “Freedom House”. Mentre la Corte africana per i diritti umani, cioè il tribunale dell’Unione africana, ha invitato il presidente ad “abrogare i decreti presidenziali in vigore”, considerando anticostituzionali le sue azioni.

Unione Europea in silenzio

Tace invece la Ue: essendo la Tunisia “un partner privilegiato”, premio per aver convertito la “primavera” in democrazia, è difficile che possa cambiare qualcosa a breve tempo. E quindi, nonostante l’erosione dei diritti, la Tunisia ha continuato ad avere sostegno finanziario, mentre non è stato per nulla scalfito il rapporto economico con l’Italia. Per esempio continua il progetto di interconnessione elettrica fra i due Paesi, l’Elmed, che prevede la costruzione di un cavo sottomarino lungo 200 chilometri dalle coste tunisine fino a Partanna, in Sicilia. Elmed ha ottenuto 307,6 milioni di euro da parte dell’Ue, ai quali dovranno aggiungersi altri 300 milioni di euro da parte dell’italiana Terna e del partner tunisino.

Più difficile invece per la Tunisia ottenere il prestito del Fmi, perché per averlo essa dovrà praticare le regole previste dal ben noto binomio “lacrime&sangue”: completa eliminazione dei sussidi per cibo e carburante, taglio per sanità pubblica, istruzione e protezione sociale, privatizzazione delle principali aziende pubbliche e, ovviamente, nessun aumento salariale.

Contro tutto ciò sono scesi in piazza i tunisini. Ma anche il presidente Saied ha risposto che non ne farà nulla, altrimenti il Paese esploderà. Ed è a questo punto che ha minacciato di passare ad altri finanziatori, più generosi anche se meno affidabili dal punto di vista democratico. Primo della lista la Cina. Ma anche tutti gli altri Paesi del Brics, Brasile, Russia, India, Sud Africa.

Un bluff? Possibile. Ma nessuno, in Europa e in Italia, vuole andare a scoprirlo.

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