Usata ogni tanto, da un secolo, contro il presidente di turno, una caustica battuta di un maestro del giornalismo americano d’altri tempi riceveva nel 2016 nuova giovinezza ed è da allora legata, per molti, a quel che resta del ciuffo a visiera di Donald Trump. L’autore è Henry Louis Mencken da Baltimora, al suo massimo negli anni 20 del 900, che la offrì ai lettori del Baltimore Sun del 26 luglio di 98 anni fa, mentre stava per essere eletto il vacuo Warren G. Harding. “Con il perfezionamento della democrazia – sentenziava Mencken – il ruolo del presidente rappresenta sempre più da vicino l’anima profonda del popolo. In una qualche grande e gloriosa giornata la gente comune del Paese finalmente vedrà realizzarsi il sogno custodito nel più profondo del cuore e la Casa Bianca sarà abbellita dalla presenza di un totale cretino”. Il che non vuol dire un cretino innocuo. Uno come noi, finalmente; il massimo del populismo, come ben sappiamo in Italia.
Trump: volto della rabbia di un’America divisa
Il quadro è nero dopo quattro anni di presidenza Trump e altri due anni in cui Trump è riuscito a passare agli occhi di decine di milioni di americani non come un qualunque candidato sconfitto ma come un legittimo sovrano defraudato. Ed essendo lui “uno come noi”, a milioni si sentono defraudati. Sarebbe un grave errore però ridurre il tutto a un fatto di presunta stupidità collettiva. Dietro la scelta di soluzioni radicali, di qualcuno che finalmente lanci a Washington il gesto dell’ombrello, c’è il malessere di decine di milioni di elettori che si sentono traditi. In particolare, dalle inefficaci avventure militari dopo gli attentati terribili del 2001, dalla paurosa crisi finanziaria post 2008, dove molti si sono sentiti abbandonati dal sistema che invece ha protetto le banche, dalla crescente diseguaglianza dei redditi e dalla fine dei buoni posti di lavoro blue collar più o meno sicuri; e infine da un’agenda sociale progressista che ha sconvolto negli ultimi decenni, secondo molti, l’idilliaco scenario di family, church and country.
Trump e la pericolosa distorsione della realtà: “Il sovrano defraudato”
Barack Obama aveva ampiamente promesso nel 2008 una grande pulizia, necessaria per il baratro finanziario incombente, con una campagna di chiaro populismo moderato di sinistra cui non seguirono i fatti, e nessuna azione penale contro finanziari d’assalto imbroglioni. E così circa un terzo delle contee che avevano votato Obama nel 2012 e un quarto di quelle che lo avevano fatto nel 2008 passavano nel 2016 a Trump. Oggi l’America è come una foresta piena di tronchi caduti e arbusti secchi e basta una scintilla per mandare tutto a fuoco, come dice il politologo Robert Pape dell’Università di Chicago, autore nell’ultimo anno e mezzo di una mezza dozzina di indagini demoscopiche mirate all’elettorato trumpiano. Esistono oggi, ricorda Pape, dai 15 ai 20 milioni di americani adulti convinti che la violenza sia giustificata per riportare Donald Trump alla Casa Bianca, che gli è stata sottratta con l’inganno. In molti ci credono, Trump ne ha fatto la sua bandiera, non è vero niente, ma funziona perché spiega semplicemente tutto: ci imbrogliano, anche nel voto.
Trump contro Biden e l’attacco al Campidoglio
Tutti sanno che Trump vinse sei anni fa grazie a circa 80 mila voti popolari in più di Hillary Clinton presi in tre Stati (Michigan, Pennsylvania e Wisconsin) che gli dettero la maggioranza necessaria nell’electoral vote; la Clinton ebbe quasi 2.9 milioni di voti popolari in più, su base nazionale, ma il meccanismo elettorale premiò Trump, e nessuno cavalcò la fandonia della “vittoria tradita” e di fantomatici brogli a favore di Trump.
Joe Biden batteva Trump nel novembre del 2020 grazie a uno scarto di 44mila voti complessivi in Wisconsin Georgia e Arizona senza i quali il risultato, in termini di electoral vote, sarebbe stato alla pari, da risolvere poi al Congresso, secondo le regole costituzionali. Nel complesso dei sei stati più in bilico, oltre ai tre citati anche Michigan Pennsylvania e Nevada, si arriva a circa 310 mila voti in più per Biden, che ebbe anche quasi 7 milioni di voti popolari in più, ma questo come noto ha un valore solo simbolico nel sistema federale americano che modera lo strapotere delle aree più popolose attraverso il meccanismo dell’electoral college. Trump rifiutò di riconoscere i verdetti delle autorità statali, ciascuna responsabile della regolarità dei voti, fece enormi pressioni sui politici repubblicani locali perché invocassero brogli impossibili da dimostrare, minacciò, urlò confermando di avere un carattere dai tratti infantili che reagisce istericamente alle sconfitte, pretese alla fine che il vicepresidente Pence come presidente del Senato non sottoscrivesse i verdetti inviati a Washington dai singoli Stati, autorità autonome anche in fatto di elezioni, Pence si rifiutò, ed è in quel clima che avveniva il 6 gennaio 2021 l’incredibile attacco delle truppe d’assalto di Trump al Campidoglio.
Indagini, inchieste e perquisizioni: tutti i nodi al pettine di Trump
I nodi stanno venendo al pettine, in una battaglia che dovrebbe anche indicare quanti davvero credono alla vittoria tradita e quanti no, prima di tutto all’interno del partito repubblicano, al di là delle dichiarazioni propagandistiche del “salviamo l’America dai traditori”. Un gruppo di giuristi e politici repubblicani, tra cui due ex senatori, ha diffuso a luglio 2022 uno studio di 70 pagine (Lost, not stolen, e cioè Voto perso, non rubato) dove vengono esaminati tutti i casi di presunti brogli, negati già dai vari Stati e da circa 60 sentenze (spesso di giudici conservatori) su singoli ricorsi, e ritenuti anche da questa analisi inesistenti.
Un’indagine parlamentare della Camera sta esaminando il ruolo di Trump negli incredibili disordini del 6 gennaio del 21, e sono emerse testimonianze e informazioni pesanti. Due indagini penali federali stanno valutando una gli stessi episodi del 6 gennaio, l’altra il tentativo complessivo di stravolgere i risultati elettorali. In Georgia è in corso un esame sulle pressioni fatte da Trump nel novembre 2020 sulle autorità locali. I magistrati di New York hanno due indagini distinte sulle pratiche commerciali, e il comportamento fiscale, dell’impero Trump. E infine, nell’ambito di un caso federale aperto da tempo sull’uso dei documenti riservati che Trump avrebbe dovuto restituire alla fine del mandato, un anno e mezzo fa, c’è stata la perquisizione della sua residenza in Florida, la nota Mar-a-Lago, da parte dell’Fbi, l’8 agosto scorso, con il sequestro di varie casse di documenti. È stato il salto di qualità nella contesa. “Barack Hussein Obama si è tenuto 33milioni di pagine di materiale”, ha annunciato Trump poco dopo. Tutto smentito dagli Archivi Nazionali, depositari del materiale. Ma l’importante è confondere le acque e fare la vittima.
Trump è in grande difficoltà ma i repubblicani sono ancora il suo partito
La mossa a Mar-a-Lago è stata un azzardo da parte del ministro della Giustizia Merrick Garland e del presidente Biden, con la Casa Bianca che si tiene tuttavia il più possibile defilata in questa battaglia legale? Qualcuno lo sostiene, perché la forza di Trump sul partito repubblicano è ancora notevole e i sondaggi indicano che se le primarie presidenziali si tenessero ora sarebbe lui il probabile candidato. Joe Kent, candidato trumpiano dello Stato di Washington per un seggio alla Camera, ha detto che “tutto questo indica chiaramente ciò che molti di noi dicono da molto tempo: siamo in guerra”. E Kari Lake, che ha vinto con assalti alla iugulare le primarie repubblicane e sarà il prossimo novembre il molto probabile nuovo governatore dell’Arizona: “questa è una battaglia tra chi vuole salvare l’America e chi vuole distruggerla”.
E ancora: “Non si fermeranno di fronte a nulla per azzerare i patrioti che si battono duramente per salvare il Paese, Voi con chi state?” Subito, mettendo le mani avanti, il suo portavoce ha aggiunto che “accusare i repubblicani di incitamento alla violenza è il solito gioco disonesto”. Ma incitare alla violenza è esattamente ciò che Trump e i suoi stanno facendo. Dicono che mai un ex presidente e candidato presidenziale è stato trattato così e chiedono un’inchiesta su Garland. È stato facile rispondere che mai un presidente e un candidato presidenziale si è mosso con uno spregio della legge pari a quello dimostrato da Donald Trump. Se la legge alla fine non riuscirà a vincere, aspettiamoci giorni bui per l’America, e per noi.
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Un bellissimo articolo, frutto della penna di un giornalista che conosce la politica americana per davvero.