Quando Lincoln fu assassinato, nell’aprile 1865, gli successe il suo vice Andrew Johnson. Benché del Tennessee, stato del sud confederato, e benché democratico, Johnson era comunque sempre stato un leale sostenitore dell’Unione e il repubblicano Lincoln lo aveva voluto nel suo Team of Rivals per allargare la sua base di consenso e presentarsi all’America come l’unificatore della nazione.
Una volta entrato alla Casa Bianca Johnson portò avanti alcune delle politiche di Lincoln, ma non si oppose agli stati del sud che, pur avendo perso la Guerra Civile, cercavano di ripristinare le pratiche discriminatorie contro i neri. Johnson era un rigido costituzionalista e poiché i suoi atti erano formalmente corretti i repubblicani vararono una legge ad hoc che impediva al presidente di dare corso al licenziamento del suo ministro della guerra sapendo che Johnson si sarebbe rifiutato di revocarlo. Così fu. Johnson fu allora sottoposto dalla camera bassa alla procedura di impeachment, ovvero al rinvio a giudizio. Il processo, come previsto dalla costituzione, fu gestito dal senato. In un clima incandescente e con una compravendita di voti dilagante Johnson fu alla fine prosciolto e poté condurre a termine il suo mandato.
La procedura di impeachment americana è ricalcata su quella britannica (la Camera dei Comuni decide il rinvio a giudizio e la Camera dei Lord giudica). Benjamin Franklin la incluse nella costituzione perché, come scrisse, l’impeachment era meglio del regicidio. Il ricordo della decapitazione di Carlo I nel 1649 era ancora fresco.
Nessun presidente è mai stato rimosso dalla carica dalla procedura di impeachment. Johnson e Clinton furono assolti e Nixon si dimise prima della sentenza. Previsto come assolutamente eccezionale dai Padri Fondatori l’impeachment è diventato negli ultimi decenni uno strumento sempre più frequente nella lotta politica e ne segnala un decadimento strutturale. Basti pensare al fatto che Hillary Clinton, se eletta, sarebbe stata immediatamente sottoposta a procedura di impeachment dalla camera bassa repubblicana.
Ora, nei circoli di Washington, non si parla d’altro che di impeachment per Trump. Attenzione, però. Che se ne parli non significa che ci siamo vicini. Anche se si tratta di una procedura molto più politica che giudiziaria l’accusa ha bisogno, per evidenti ragioni di consenso, di qualche evidenza di reato e su Trump, al momento, non c’è assolutamente nulla. E d’altra parte è molto difficile che la camera bassa repubblicana avvii la procedura.
Quella che c’è da qualche ora è invece una commissione d’inchiesta del Congresso sui presunti legami tra Trump e i russi. Commissioni simili furono una spina nel fianco di Reagan e di Clinton per molti anni ma non impedirono né all’uno né all’altro di terminare il loro mandato e di portare avanti le loro politiche.
Lo scopo politico delle commissioni d’inchiesta di questo tipo non è quello di trovare la verità bensì quello di allargare a macchia d’olio l’indagine e tendere una fitta serie di trappole procedurali nell’attesa che qualcuno degli accusati o dei testimoni cada in contraddizione o dichiari il falso. Il pretesto iniziale è spesso debolissimo, ma l’accusa sa che la difesa, sotto pressione, commette sempre dei pasticci ed è proprio su questi pasticci che si conta di realizzare l’attacco mortale.
I democratici non vogliono niente di particolarmente rapido contro Trump perché sanno che una presidenza Pence sarebbe popolare. Meglio tenere Trump sotto scacco senza dargli il matto in modo da vincere le elezioni di midterm dell’anno prossimo e riconquistare camera e senato. La reazione dei mercati non si giustifica se è motivata dall’imminenza di eventi spettacolari, che probabilmente non ci saranno, ma ha nondimeno qualche ragione.
La più seria è che le riforme, in particolare quella fiscale, rischiano a questo punto di insabbiarsi ulteriormente. Su questo non siamo d’accordo o, per meglio dire, non siamo ancora d’accordo. Trump e i repubblicani sanno che sulle riforme si giocano davvero tutto e la pressione di cui sono oggetto può tradursi certamente in divisione e fallimento, ma, in alternativa, anche in maggiore consapevolezza della necessità assoluta di consegnare qualcosa al paese in tempi ragionevoli.
Una seconda ragione è che la debolezza di Trump potrebbe tradursi in un affievolimento di quegli spiriti animali imprenditoriali che si erano improvvisamente risvegliati dopo il voto di novembre. A questo si può rispondere che così come le conseguenze pratiche di questa ripresa di ottimismo sono state decisamente sopravvalutate (non c’è stata nessuna esplosione di assunzioni, di investimenti o di consumi), allo stesso modo oggi si rischia di sopravvalutare l’impatto negativo sull’economia reale degli indicatori di sentiment in possibile deterioramento che ci attendono.
Una terza ragione, al momento la più plausibile, è che il rialzo americano appariva anche prima degli eventi di questi giorni sempre più faticoso, inerziale e sottile. E soprattutto non giustificato. Un modesto ripiegamento, in queste condizioni, ci sta tutto. Diverso il discorso per l’Europa, che per continuare a salire ha bisogno di un’America quanto meno stabile pur avendo buone ragioni sue per il rialzo.
Il corollario di questi discorsi è che non c’è ancora nessun motivo per pensare che la Fed non alzerà i tassi a giugno e che la Bce interromperà il suo processo di graduale indurimento delle sue posizioni. Per la prossima fase, in mancanza di ulteriori sorprese, vediamo una borsa americana in range, con un po’ più di volatilità ma senza nuovi massimi di qualche significato e senza rotture, un’Europa che cautamente si riavvicinerà ai massimi e un dollaro ora ipervenduto che potrebbe tentare un modesto recupero.