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Trump, la rivolta di Wall Street (e non solo): “Così rovini l’America”. Petrolieri, finanzieri e senatori alleati in retromarcia

Petrolieri, finanzieri, big tech e senatori repubblicani stanno iniziando a ricredersi sull’appoggio fornito a Trump. A iniziare da Musk che provoca Trump proprio sul terreno dei dettami chiave del liberismo economico

Trump, la rivolta di Wall Street (e non solo): “Così rovini l’America”. Petrolieri, finanzieri e senatori alleati in retromarcia

Speravano di arricchirsi insieme a lui, invece stanno perdendo miliardi di dollari. Non solo la Silicon Valley, ma anche petrolieri, finanzieri e senatori repubblicani che sono stati così attivi e generosi durante le presidenziali nello spingere Trump, ora iniziano a rimpiangere quell’orientamento o cercano di cambiare rotta. Dalle “Big Oil” a certi colossi digitali ora soprattutto non condividono la strategia scelta, perché immaginavano le tariffe come strumento temporaneo per negoziare accordi commerciali favorevoli agli Usa. Invece ora temono che siano una linea permanente, fomentata da consiglieri come Pete Navarro che sperano così più che altro di mettere in ginocchio la Cina, come riporta La Repubblica.
Gente che magari non ha il potere costituzionale di fermare Trump, o tanto meno rovesciarlo, ma a lungo potrebbe contribuire a determinarne il fallimento.

Ciò che ha più colpito è stata la provocazione di Musk all’indirizzo di Trump. Il patron di X ha postato un video in cui il premio Nobel per l’Economia del 1976 Milton Friedman tesseva le lodi dei liberi scambi internazionali elencando il numero di Paesi coinvolti nella produzione di una banale matita (il legno, la grafite, la gomma, la vernice esterna…), spiegando perché i dazi fossero una fesseria. Un modo decisamente esplicito per prendere le distanze dalla guerra commerciale scatenata dalla Casa Bianca aveva. Usare l’icona dell’economia liberista contro un presidente repubblicano è il più grande affronto che si possa immaginare nel Gop (il Grand Old Party, il soprannome del Partito Repubblicano), che potrebbe accelerare la rottura con Elon. Tanto più che il fondatore di Tesla ha sparato apertamente contro Navarro, considerato il vero architetto della linea oltranzista in chiave anti cinese, dicendo che la sua laurea ad Harvard è un impedimento per il buon senso.

Il re degli hedge fund Bill Ackman aveva fatto campagna per Trump, oltre a regalargli svariati finanziamenti elettorali, ma ora chiede una pausa di 90 giorni dei dazi e accusa il segretario al Commercio Lutnick di volere il collasso dell’economia americana, perché attraverso la sua compagnia Cantor Fitzgerald fa i soldi con i bond. Il ceo di JPMorgan, Jamie Dimon, ha scritto nella lettera ai clienti che la recessione non è assicurata, ma se i dazi continueranno a lungo rovineranno le relazioni con gli alleati economici, erodendo lo “straordinario vantaggio degli Usa negli affari mondiali”.

Nel frattempo, visto che anche i portafogli personali contano, Mark Zuckerberg, Larry Ellison, Jeff Bezos e lo stesso Musk hanno perso almeno 10 miliardi di dollari a testa dall’inizio della nuova amministrazione. Secondo l’ultimo Dallas Fed Energy Survey, anche i grandi petrolieri iniziano a rimpiangere gli assegni in bianco staccati per eleggere Trump, perché detestano il caos e il crollo precipitoso del prezzo del greggio, alimentato dai timori di una recessione imminente. Mentre l’economista Brent Neiman ha scritto sul New York Times: “Il governo sui dazi ha citato una mia ricerca, ma non ha capito nulla dei risultati”

Anche alcuni repubblicani iniziano a ricredersi

Pure la politica però inizia a reagire, con la fronda repubblicana che prende forma. Il senatore del Kentucky Rand Paul si è alleato col democratico Tim Kaine, per approvare una legge che blocchi i dazi al Canada, almeno fino a quando il Congresso non li autorizzi, riappropriandosi dei poteri che la Costituzione basata sui “checks e balances” gli ha affidato. Altri due colleghi del Gop, Mike Lee dello Utah e Ron Johnson del Wisconsin, hanno sollecitato Trump ad accettare l’offerta di “zero dazi” sui prodotti industriali avanzata dalla presidentessa della Commissione europea von der Leyen. “Accettiamo questo accordo, c’è molto da guadagnare”, ha chiesto Lee. “Ad un certo punto devi accettare un sì come risposta”, ha concordato Johnson.

Il timore degli alleati del presidente è soprattutto questo, cioè che non intenda i dazi come grimaldello temporaneo per costringere gli altri Paesi a fare concessioni commerciali ed eliminare le tariffe, ma come balzello permanente per incassare soldi e magari piegare la Cina. Col rischio, invece, di raggiungere il solo risultato di condannare gli Usa alla recessione.

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