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Trump, il valzer delle nomine e il caso Gaetz rivelano le prime inceppature dell’amministrazione

Imagoeconomica

A prendere posizione apertamente contro Gaetz erano state le senatrici repubblicane Lisa Murkowski dell’Alaska e Susan Collins del Maine, quest’ultima una moderata che nel 2026 si ripresenterà per un nuovo mandato in uno Stato dove lo scorso 5 novembre Kamala Harris ha conquistato la maggioranza del voto popolare. Contro di lui avrebbe potuto schierarsi anche John Curtis – appena eletto in Utah in sostituzione del senatore uscente, Mitt Romney, l’unico senatore repubblicano a votare contro Trump in tutte e due le procedure di impeachment a suo carico – in quanto Gaetz era intervenuto nelle primarie dello scorso marzo per fare campagna per un suo sfidante.

Non era sicuro neppure il sostegno del senatore John Cornyn del Texas, che si era affrettato a chiesto alla Commissione per l’Etica della Camera dei Rappresentanti, di cui Gaetz ha fatto parte fino alla nomina di Trump, di visionare le prove presentate contro Gaetz che i suoi ex colleghi a Washington avevano ritenuto insufficienti.

Né era presumibile l’appoggio del senatore Todd Young dell’Indiana, attaccato nel 2022 da Gaetz, che lo collocò nel novero dei “traditori della Costituzione”, perché aveva votato a favore di un disegno di legge, poi non approvato, che intendeva limitare la diffusione delle armi nelle mani di privati cittadini al fine di scongiurare le frequenti stragi compiute da squilibrati.

La procedura di ratifica

I repubblicani controllano 53 seggi su 100 nel Senato che si insedierà il prossimo 3 gennaio, ma qualche membro del partito nel ramo alto del Congresso ha cominciato a prendere le distanze da alcune scelte di Trump, non solo da quella di Gaetz, per la guida di dicasteri chiave dell’amministrazione federale che entrerà in carica il 20 gennaio 2025.

L’opposizione di alcuni senatori repubblicani ai prescelti da Trump non comporta un dissenso ininfluente. La sezione 2 dell’articolo II della Costituzione stabilisce che il Senato ha il potere di ratificare o di rigettare le nomine dei titolari dei dipartimenti (la versione statunitense dei ministeri) designati dal presidente.
I soli componenti del governo esentati da questa procedura di conferma sono il vicepresidente, perché la sua è una carica elettiva, e il capo di gabinetto, in quanto la scelta del coordinatore dello staff della Casa Bianca è lasciato alla sola discrezione presidente.

In origine, il presidente annunciava le proprie nomine solo dopo il proprio insediamento formale. Dal secondo dopoguerra, invece, le designazioni cominciarono a essere fatte subito dopo le elezioni e il Senato incominciava le audizioni per la conferma all’apertura della nuova legislatura il 3 gennaio.
In questo modo, molto spesso il giorno del giuramento del neopresidente, parte dei componenti del governo poteva già esercitare le proprie funzioni. Tuttavia, con la crescita della polarizzazione del Senato e in seguito all’incremento della conflittualità tra i partiti, i tempi di conferma si sono allungati.

Per esempio, al momento dell’ingresso di George H.W. Bush alla Casa Bianca il 20 gennaio 1989, il Senato aveva ratificatole le nomine di quasi metà del suo esecutivo, cioè sette segretari di dipartimento su quindici. Invece, solo due dei ventisei componenti del governo di Trump aveva ottenuto la conferma del Senato prima del 20 gennaio 2017 e appena uno dei membri del cabinet di Joe Biden aveva ricevuto il benestare antecedentemente al 20 gennaio 2021.

I precedenti storici

La bocciatura di una nomina presidenziale – soprattutto se effettuata all’inizio dell’amministrazione, quando l’inquilino della Casa Bianca è fresco di vittoria elettorale, cioè è recente il conferimento del mandato popolare – è un evento inconsueto, ma non inedito. In tutta la storia degli Stati Uniti, dal 1789 a oggi, sono stati nove i candidati selezionati dal presidente che il Senato si è rifiutato di confermare.
La prima designazione che il ramo superiore del Congresso non volle approvare fu, nel 1834, quella di Roger B. Taney al posto di segretario del Tesoro. Tuttavia, il democratico Andrew Jackson aveva scelto Taney quando il suo secondo mandato alla presidenza era cominciato da circa sei mesi, per sostituire William John Duane, che il presidente aveva destituito per divergenze sulla gestione della Seconda banca nazionale degli Stati Uniti.

A oltre un secolo di distanza, un caso simile fu quello di Lewis Strauss – l’autorevole accusatore del fisico nucleare J. Robert Oppenheimer quale presunto comunista – che il repubblicano Dwight D. Eisenhower avrebbe voluto alla testa del dipartimento del Commercio nell’ottobre del 1958, quasi due anni dopo l’inizio della sua seconda amministrazione.

A detenere il poco invidiabile record del numero dei rifiuti, ben quattro, è John Tyler, il decimo presidente degli Stati Uniti, in carica per il partito Whig dal 1841 al 1845. Ma la sua fu un’esperienza particolare. Tyler si insediò alla Casa Bianca non in seguito a una elezione, ma a causa della morte del suo predecessore, William Harrison, a un mese dall’insediamento.

In questa categoria rientra pure la mancata ratifica della designazione di Henry Stanbery come procuratore generale da parte del repubblicano Andrew Johnson nel 1868. Neppure Johnson, infatti, era un presidente eletto perché era subentrato ad Abraham Lincoln dopo il suo assassinio alla fine della guerra civile.

Inoltre, Stanbery era inviso al Senato, dal momento che Johnson lo aveva ingaggiato come proprio avvocato difensore per affrontare la procedura di impeachment che era stata aperta contro di lui e che non si era conclusa con la sua rimozione per un solo voto. Il record di bocciature spetta, invece, a Charles B. Warren. Per ben due volte il repubblicano Calvin Coolidge lo indicò come procuratore generale nel marzo del 1925, pochi giorni dopo essere stato confermato alla Casa Bianca in virtù del successo nelle elezioni presidenziali del 1924, e altrettante volte il Senato negò a Warren la carica.

Il caso di John Tower

La bocciatura più clamorosa e più recente fu quella subita da John Tower nel 1989. Tower era stato membro del Senato dal 1961 al 1985. Dal 1965 aveva fatto parte della Commissione sulle Forze Armate di cui era stato presidente negli ultimi quattro anni di mandato. Due settimane dopo la conclusione della sua esperienza al Senato, Tower assunse la funzione di capo della delegazione degli Stati Uniti ai negoziati di Ginevra con l’Unione Sovietica per la riduzione degli armamenti nucleari, ruolo che mantenne fino al 1987.

Per competenza nel campo miliare, quindi, Tower sembrava avere tutte le carte in regola per andare a guidare il dipartimento della Difesa, ruolo a cui George H.W. Bush – appena entrato in carica con la vittoria nelle elezioni del 1988 – lo designò.

Invece, il Senato respinse la sua nomina con 53 voti contrari e 47 favorevoli. Il fatto che il partito democratico avesse la maggioranza al Senato non fu un aspetto significativo, alla luce della constatazione che tutte le altre nomine di Bush per i dicasteri della sua amministrazione furono ratificate senza problemi. A giocare contro Tower furono la sua reputazione di donnaiolo, la sua tendenza a eccedere nel consumo di alcolici e un presunto conflitto di interessi per i suoi ipotetici rapporti con alcune industrie di armamenti.

Le analogie del caso di Tower con quelli di Gaetz e Pete Hegseth

Proprio i rapporti con le donne, in una fase storica di maggiore sensibilizzazione sulla questione rispetto alla fine degli anni Ottanta, inducono a vedere una qualche similitudine tra la vicenda di Tower e le obiezioni alla nomina di due dei candidati di Trump. Non si tratta solo di Gaetz, ma anche di Pete Hegseth, designato per il posto di segretario alla Difesa come lo era stato Tower. Hegseth è stato indagato nel 2017 per il sospetto che avesse aggredito sessualmente una donna durante una convention della National Federation of Republican Women, sebbene l’inchiesta non abbia portato a nessuna incriminazione nei suoi confronti anche perché Hegseth versò denaro alla sua accusatrice affinché firmasse un accordo di riservatezza e ritirasse la denuncia.

Le altre designazioni problematiche di Trump

In aggiunta a quelle di Gaetz e Hegseth, Trump ha compiuto altre scelte opinabili. Ha affidato il dicastero della Sanità Robert F. Kennedy Jr., noto per la sua posizione no-vax anche all’apice della pandemia del covid-19 e per la sua convinzione – priva di riscontri scientifici – che i vaccini avrebbero come effetti collaterali l’autismo, l’iperattività e lo sviluppo di allergie. Inoltre, ha proposto come direttore dell’Intelligence Nazionale, Tulsi Gabbard, un’ex deputata federale democratica delle Hawaii che ha più volte espresso un orientamento favorevole al dittatore siriano Bashar al-Assad nonché simpatie per il regime di Vladimir Putin in forma così esplicita e acritica che è stata tacciata di veicolare propaganda filorussa negli Stati Uniti.

I possibili frondisti repubblicani

A manifestare apertamente riserve su Hegseth in campo repubblicano sono state le senatrici Murkowski e Collins, che hanno già contribuito ad affossare la candidatura di Gaetz al dipartimento di Giustizia. Il senatore Bill Cassidy della Louisiana, che è un medico, ha ripetutamente liquidato come “fake news” le affermazioni di Kennedy sui vaccini. A suscitare dubbi sulla opportunità della scelta di Gabbard, invece, è stata la senatrice Joni Ernst dello Iowa. Sembra pure improbabile che l’ex capogruppo repubblicano al Senato, Mitch McConnell del Kentucky, che si è speso nella passata legislatura per l’invio di aiuti militari all’Ucraina, possa ratificare a cuor leggero la nomina di Gabbard.

Il senatore Thom Tillis della Carolina del Nord è convinto che il fatto di essere stato un ufficiale della guardia nazionale del Minnesota non costituisca un’esperienza sufficiente per attestare la competenza di Hegseth a guidare il Pentagono, un dipartimento con un bilancio annuale che supera gli 800 miliardi di dollari e con un personale complessivo di quasi tre milioni di dipendenti, di cui poco meno di un milione e mezzo di militari in servizio attivo, che lo rende il dicastero con il maggior numero di addetti.

Uno scenario plausibile

Nell’ipotesi, molto probabile, che i quarantacinque senatori democratici votino compatti contro le designazioni più controverse di Trump e che i due senatori indipendenti si schierino con loro, sarebbe sufficiente che quattro repubblicani passassero dalla loro parte per bocciare, se non tutti, almeno alcuni dei candidati maggiormente discussi di The Donald. Del resto, ancor prima che Gaetz decidesse di rinunciare a dirigere il dipartimento di Giustizia, Trump non aveva avuto un buon rapporto con il Senato nel campo delle nomine di governo al tempo del suo primo mandato.

La sua scelta originaria per il dicastero del Lavoro, Andrew Puzder, nominato il 6 dicembre 2016, rinunciò all’incarico il successivo 15 febbraio, quando si rese conto che il Senato non lo avrebbe confermato a causa di voci che gli attribuivano molestie sessuali verso dipendenti e il mancato pagamento dei contributi previdenziali a una domestica che sarebbe stata perfino una immigrata irregolare.

Di fronte a analoghi impasse nel processo di ratifica o allo smacco politico di una bocciatura da parte del Senato, si ritirarono anche altri due potenziali membri del cabinet di Trump: Ronny Jackson, proposto nel 2018 come segretario del dipartimento per gli Affari dei Veterani, e Patrick M. Shanahan, designato nello stesso anno alla guida del dicastero della Difesa. Nel caso di John Ratcliffe, scelto come direttore dell’intelligence Nazionale, Trump dovette ricorrere a un doppio tentativo. Nel 2019, incerto sul fatto che la maggioranza dei senatori avrebbe confermato la nomina, rinunciò a formalizzare la designazione dopo soli quattro giorni dall’annuncio che Ratcliffe era il suo candidato. Tornò a designarlo per la stessa carica l’anno successivo e, questa volta, ottenne la conferma del Senato anche se furono necessari quasi tre mesi, dal 28 febbraio al 21 maggio, per il voto di ratifica.

Il ventaglio delle opzioni di Trump

Oggi Trump potrebbe arrivare a una prova di forza con il Senato, correndo il rischio di finire sconfitto su qualche nomina oppure avvalersi di un artificio che consiste nel formalizzare le designazioni in un periodo in cui il Senato non è in seduta. In questo caso, i candidati del tycoon entrerebbero subito in carica come facenti funzioni di segretari di dipartimento e direttore dell’Intelligence Nazionale e ricoprirebbero tale ruolo fino alla successiva convocazione del Senato.

A quel punto, posti di fronte al fatto compiuto, i senatori repubblicani avrebbero maggiore difficoltà a pronunciarsi contro le scelte del proprio presidente e, nell’ipotesi di bocciature, Trump potrebbe aspettare la conclusione della sessione per riproporre i suoi candidati come facenti funzioni, ripetendo potenzialmente questa tattica all’infinito.

Da quanto si è visto con Gaetz, però, è più probabile che Trump ricorra a una terza via: indurre a fare un passo indietro i candidati privi di una maggioranza per essere confermati e sostituirli con personaggi meno controversi e divisivi, come è successo con l’ex deputato, rimpiazzato con Pam Bondi alla testa del dipartimento di Giustizia. Bondi, però, rischia di ritrovarsi nella condizione di Henry Stanbery perché ha fatto parte del team di difensori di Trump al tempo del suo primo impeachment, quello sul cosiddetto Ucrainagate, risalente al periodo tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020.

Del resto, non sembra che The Donald abbia particolarmente a cuore la compagine governativa. Pare, infatti, volto a un depotenziamento delle istituzioni dell’amministrazione federale formale. A quest’ultima, infatti, sta affiancando organismi ufficialmente consultivi, i cui componenti non sono pertanto soggetti alla ratifica del Senato, ma che finiscono per svolgere funzioni di fatto operative.

L’esempio paradigmatico è quello del Department of Government Efficiency (DOGE), il dipartimento dell’Efficienza di Governo, affidato a Elon Musk e Vivek Ramaswamy. Malgrado la sua denominazione, il DOGE non è un vero dicastero. Affinché lo diventasse, sarebbe necessaria una legge istitutiva del Congresso, un provvedimento legislativo che finora nessuno ha proposto. Nondimeno, il DOGE ha il compito di proporre tagli al bilancio federale fino a 3.000 miliardi di dollari e spinge abrogare il dipartimento dell’Istruzione, non certo un ruolo secondario per un organo che agisce al di fuori dell’apparato del governo e sfugge a controlli, verifiche e supervisione del Congresso.

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