Gli americani, mediamente, non mostrano particolare interesse per le questioni climatiche. Solo davanti a fenomeni sconvolgenti come alluvioni, uragani e nevicate eccessive discutono delle cause e dei rimedi per non assistere più a episodi così terribili. I disastri che recentemente hanno colpito Florida, Georgia o gli incendi in California, hanno smosso le coscienze soprattutto giovanili. Milioni di persone, tuttavia, continuano a ritenere il clima qualcosa che non condiziona la vita di tutti i giorni. I movimenti ambientalisti sono attivi negli Stati più popolosi, ma non sono ancora un pilastro della new economy.
La sfida elettorale tra Donald Trump e Kamala Harris è, dunque, il riflesso di un Paese che su clima e ambiente ha due candidati che la pensano in modo opposto mentre la stragrande maggioranza dei cittadini è più silenziosa di quanto ci si aspettasse. È un‘America diversa dalle ambizioni e dalle speranze dei movimenti pacifisti e alternativi che hanno plasmato le coscienze di intere generazioni.
Il negazionismo di Trump
Il negazionismo climatico di Trump è emerso prepotentemente durante la sua presidenza ma la propaganda politica contro le fonti pulite non ha ripagato i conservatori che hanno cercato di vendere agli americani l’idea di chissà quale complotto. L’inquinamento nelle grandi città non è diminuito, gli eventi tragici non sono stati fronteggiati con la forza che pure Trump aveva promesso prima di arrivare alla Casa Bianca. Le condizioni climatiche sono peggiorate e la gente si è ammalata di più. Le patologie respiratorie nelle persone anziane, in particolare nelle grandi città, sono cresciute a dismisura.
Quando ha rinnegato gli accordi di Parigi del 2015 contro il cambiamento climatico, Donald Trump era convinto che molti altri Stati occidentali lo avrebbero seguito. Non è andata così e lui e i suoi consiglieri hanno cominciato ad attaccare il direttore generale dell’Agenzia internazionale dell’Energia Fatih Birol per le sue posizioni contro le fonti fossili. La presidenza di Joe Biden – con Kamala Harris vice – è corsa ai ripari con i 370 milioni di dollari dell’Inflation reduction act (Ira): il più grande investimento nella storia degli Usa per il clima e le energie pulite.
Kamala ne ha parlato durante la campagna elettorale, ma il tema ambiente non è stato mai ai primissimi posti rispetto a immigrazione, tasse, sanità, disuguaglianze. Eppure il cambiamento climatico crea, eccome, disuguaglianze sociali ed economiche che si trasformano ora in consensi, ora nel rifiuto del voto. Martedi sarà una prova anche per questi argomenti. D’altra parte c’è chi agita lo spauracchio di licenziamenti in massa a causa della green economy e di una massiccia depressione alle porte. Nelle periferie delle grandi città vivono persone esposte a ogni tipo di variazione climatica, prive di servizi, in condizioni di povertà energetica. Le infrastrutture energetiche, i trasporti, le telecomunicazioni, sono sempre più vulnerabili ai mutamenti climatici.
Il futuro non è solo degli Usa
I prossimi anni saranno decisivi per sapere se il mondo industrializzato sarà in grado di arrestare la deriva climatica. Se e con quali strumenti si metterà mano al riequilibrio del pianeta dove gli Usa non intendono rinunciare al ruolo di Paese guida. Entrambi i contendenti su questo hanno idee molto simili. L’eventuale vittoria di Trump esprimerebbe, tutto sommato, uno scenario protezionistico, con dazi sulle importazioni e la rivendicazione di maggiore produttore mondiale di gas e petrolio. La vittoria di Kamala Harris darebbe, viceversa, nuova fiducia alla battaglia per il clima, nonostante i tanti aggiustamenti da fare. Alla “minaccia esistenziale” come Harris ha definito i disastri climatici, i democratici finora hanno risposto con pragmatismo e denaro fresco. Nessuno nega la presenza e l’attivismo, anche in questa campagna elettorale, delle lobby dei fossili e dei giochi della finanza mondiale.
Ma è risaputo che “money calls money” come dimostra la corsa a prendere i sussidi dell’Ira, opera dei democratici. La finanza è un buon termometro, ma ignora la fisicità delle comunità, le differenze culturali e di approccio della gente comune. L’America non ha un sogno ecologico come abbiamo imparato in Europa. Il suo orizzonte politico è limitato dalle visioni antitetiche dei due candidati alla Casa Bianca. Un fatto è, però, certo: la vittoria di Trump sposterebbe indietro le lancette di una battaglia epocale nella quale gli Usa hanno il diritto-dovere di stare. E magari di iniziare di nuovo a sognare.