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Trump fuori dai social: chi comanda davvero in America?

Imagoeconomica

Si può cacciare un capo di Stato?

Dopo che Twitter e Facebook hanno bannato in modo permanente Donald Trump, ponendo i sigilli sui suoi account, Kevin Roose, giornalista del “New York Times”, si è rivolto una domanda. Questa: “chi comanda in America?”.

In linea di principio, che un presidente degli Stati Uniti sia buttato fuori dai due più importanti canali di informazione del paese è qualcosa di clamoroso e stupefacente, anche nel territorio della fantapolitica di Designeted Survivor. Ma viviamo in tempi speciali e qualcosa di fantascientifico può davvero accadere.

Si può buttar fuori il presidente degli Stati Uniti da una piattaforma di comunicazione? Certamente. Twitter e Facebook sono società private e i loro capi, Jack Dorsey e Mark e Zuckerberg, devono rispondere delle loro azioni solo ai loro azionisti e per il giovane Mark significa dare conto unicamente a se stesso. Se questi capi pensano che un utente violi una sorta di vago accordo di ingaggio con il servizio, lo possono escludere, con buona pace di tutti.

Un potere enorme

A guardar bene, quello che oggi esercitano i due giovani imprenditori della Silicon Valley, e i colleghi delle altre compagnie high tech, è un potere discrezionale — e anche arbitrario — enorme, come non ha mancato di sottolineare l’America Civil Liberty Union. Un potere che impatta tutta la società e, di riflesso, le sue istituzioni.

Jameel Jaffer, direttore del Knight First Amendment Institute alla Columbia University, ha così commentato la decisione di chiudere gli account di Trump:

“L’azione delle società tecnologiche è legale, non c’è alcun dubbio su ciò. Ma essa dimostra il potere enorme che alcune di queste società hanno come guardiani della pubblica piazza”.

Se Twitter e Facebook pensavano di placare la furia dei democratici ed evitare che aggiungessero la loro voce a quella dei repubblicani nell’esigere un più stretto controllo sulla politica dei due social media, hanno fatto male i loro conti.

Subito dopo il saccheggio di Capitol Hill, Richard Blumenthal, uno dei senatori democratici favorevoli a rimettere mano al Decency Act (vedi sotto), ha dichiarato che quell’episodio “rinnova e pone l’attenzione sulla necessità del Congresso di riformare i privilegi e gli obblighi dei Big Tech”.

In Europa Angela Merkel ha definito la decisione di chiudere gli account di Trump “problematica” e una violazione del “fondamentale diritto alla libertà di parola”.

È infine significativo anche il fatto che Trump, il quale sembra avere ben poche soggezioni, tema più i giovani capi dei social media più popolari che la stessa Nancy Pelosi e tutto il Congresso degli Stati Uniti, tanto da consegnarlo al saccheggio e all’oltraggio con un semplice “marciamo e andate”. E loro sono andati e hanno saccheggiato.

A pensarci bene non si riesce a capire, fino in fondo, se siano stati Twitter (dove Trump ha 88 milioni di followers) e Facebook (con 35 milioni di followers) a creare l’ordigno Trump o Trump a consegnare un così smisurato e incontrollato potere ai due social media.

Un rapporto simbiotico

Per molti anni Trump e i social media hanno vissuto in modo simbiotico, in una relazione che li vedeva entrambi vincenti. Una coppia perfetta in affari.

C’è voluta la profanazione del luogo simbolo della democrazia americana per spingere i social media (ai quali si è aggiunto YouTube) a chiudere l’account di Trump. Fino a quel momento l’ospitalità donata a un imbarazzante Presidente era stata motivata in nome della libertà di parola, uno dei propilei della democrazia americana e dello stesso concetto politico di democrazia. Si può capire l’imbarazzo, Trump era il presidente degli Stati Uniti e non un improvvisato fanfarone dello Speakers Corner di Hyde Park.

Scrive Kevin Roose sempre sul quotidiano di New York:

“La museruola messa a Trump chiarisce bene dove risieda il potere reale nella società digitale. Non nella legge, non nel meccanismo dei pesi e contrappesi, ma nella facoltà di consentire o negare l’accesso alle piattaforme che modellano la conversazione pubblica”.

Difficile ribattere: Dorsey e Zuckerberg non si sono mai presentati alle elezioni pur esercitando un’autorità che nessun eletto può rivendicare sulla faccia della terra, come quella di sbattere la porta in faccia al proprio capo di stato. Questo potere si esercita in modo sottile, indiretto, per vie sotterranee, ma con un impatto inverosimile.

Di chi hanno veramente paura i populisti?

Per rispondere, basta analizzare quello che è successo il giorno 6 gennaio. Trump, dopo aver scalmanato la folla, è apparso in un video, registrato poche ore dopo che Twitter e Facebook avevano minacciato di cancellare i suoi account. In questo video, con il ramo di olivo in mano, ammetteva di aver perduto le elezioni, concedeva la vittoria a Biden e condannava l’attacco al Campidoglio.

Tutte ammissioni che si era ostinatamente rifiutato di fare di fronte a un Congresso furente, che poi l’ha messo sotto impeachment una seconda volta, e di fronte ai membri stessi del suo gabinetto che stavano discutendo di invocare il 25° emendamento per rimuoverlo dall’incarico.

Tale è l’importanza dei social media nella vita politica di oggi. E Trump lo sa bene. Lo sa bene a tal punto che dopo che è stata decisa la chiusura definitiva dei suoi account, è tornato ad essere il Trump dell’incendiaria campagna “stop the deal”.

Priorità: restare sui social media

Ci sono state senz’altro delle preoccupazioni giuridiche e politiche che hanno spinto il presidente ad adottare toni più concilianti, ma, a voler essere appena maliziosi, c’è un’altra interpretazione per questo effimero edulcoramento. Cioè che Trump abbia iniziato a preoccuparsi seriamente più di perdere il proprio posizionamento sui social media che la Casa Bianca.

Rimanere attivo sui social media è sembrata una priorità rispetto al rimanere nello studio ovale. Un impeachment avrebbe messo a rischio il suo futuro politico, ma l’esclusione dai maggiori social media lo avrebbe privato della sua influenza culturale, che, come gli ha insegnato Steve Bannon, è molto più importante di quella politica, perché la cultura non è effimera come il consenso politico. Nel bene e nel male, la cultura plasma la personalità.

Un influsso che Trump poteva reiterare quotidianamente con una manciata di parole consegnate a milioni di persone tramite la sola pressione di un pulsante.

Le alt-platform

Trump non è uno qualunque su Twitter. Ha un esercito di seguaci pronti ad amplificare le sue posizioni, a prescindere da quali esse siano. E non ci sono tante alternative a Twitter. Le piattaforme di destra, le cosiddette alt-platform, come Gab e Parler sono dei nani a confronto di Twitter e raggiungono già un pubblico conquistato che, spesso, è una mera eco chamber troppo estremizzata per uscire dal proprio perimetro politico e culturale.

Può succedere che Trump decida di fondare una propria piattaforma sulla quale essere nient’altro che il verace-Trump (Real-Trump).

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Ma è un’opzione disperata.

Ricostruire un’audience su una nuova piattaforma non è un’impresa da poco, anche per un ex presidente, soprattutto perché le piattaforme alternative sono subissate da problemi legali e tecnici. La stessa Parler ha subito un duro colpo dopo che Apple si è unita a Google nel bloccarla sul’App store.

Twitter e Trump

Eppure il primato di Trump all’interno di Twitter è stato il frutto di un fortuito caso. Nel 2009, quando è entrato per la prima volta in Twitter, Trump era una star dei reality show in cerca di visibilità e Twitter era un social media affamato di pubblico.

I due si trovarono subito. Lo stile a ruota libera/flusso di coscienza di Trump risultò una miniera d’oro per Twitter, che iniziò a consigliare e rimbalzare i tweet attraverso gli algoritmi di raccomandazione.

Quando Trump entrò in politica Twitter divenne una risorsa ancor più importante, ancor più decisiva. La comunicazione iniziò a passare quasi unicamente attraverso Twitter, come nessuno, nel mondo, aveva mai fatto prima di lui.

Chiunque avesse voluto conoscere le scelte della Casa Bianca, compresi gli stessi compagni di partito e collaboratori di Trump, doveva informarsi su Twitter.

Con questo comportamento Trump portava il alto anche il mezzo che usava e gli trasferiva influenza e potere, come il centravanti si fa tirar su, appoggiandosi sullo spalla del terzino, per colpire la palla di testa.

A quel punto, nonostante la consapevolezza di doverlo fare, era difficile per Twitter spegnere uno dei motori più importanti del suo business.

La domanda finale

Questo ruolo assunto dai social media fa sorgere una domanda fondamentale: quella della compatibilità del loro modello di business con lo sviluppo di una sana democrazia. A cui ne segue una seconda: se una generazione politica di Twitter-dipendenti possa ritenere più importante e sicuro accumulare retweet piuttosto che governare in modo responsabile.

Da loro canto i social media sono sotto attacco, ma sono acquattati in una trincea abbastanza sicura: la sezione 230 del Communications Decency Act li mette al riparo da ogni responsabilità legale nei confronti di ciò che pubblicano i loro utenti. Nessun altro mezzo di informazione è esente da questa responsabilità.

Le compagnie tecnologiche considerano il testo della sezione 230 del Communications Decency Act come “le 26 parole che hanno creato Internet”. E forse è proprio così. Ma oggi Internet è una sorta di creatura faustiana come continua a ripetere il suo inventore, Tim Berners-Lee.

Eppure, malgrado tutto questo fracasso, il pubblico dei social media continua a crescere e a gradirli nella loro attuale configurazione.

Dorsey e Zuckerberg non fanno mistero di odiare il loro ruolo di poliziotti della liberà di parola ed evitano di esserlo ogni volta che gli è possibile.

Per loro, il caso Trump è semplice. Si tratta di una celebrità che ha usato le loro piattaforme per conquistare la presidenza e poi per inscenare un attacco alla democrazia stessa. Pertanto la loro decisione di escluderlo non crea alcun precedente in fatto di censura e di libertà di espressione. È stato semplicemente violato il codice di condotta del servizio. Ma forse questa narrazione non è così semplice da raccontare.

Fonti: Kevin Roose, In Pulling Trump’s Megaphone, Twitter Shows Where Power Now Lies, “The New York Times”, 11 gennaio 2021 Kirian Stacey, Hannah Murphy, Big Tech reform calls from left and right, “The Financial Times”, 13 gennaio 2021

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