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Trump forever? Guai in vista per Nato ed Europa ma il tycoon non ha ancora vinto: molto dipende dal dopo-Biden

FIRSTonline

Il trumpismo si regge da quasi quattro anni soprattutto su una dimostrata menzogna: quella della vittoria rubata nel 2020, e tolta a Trump, legittimo vincitore. La convention repubblicana di Milwaukee di metà luglio è stata la promessa di una restaurazione dovuta, di un premio morale e politico ormai imminente, di giustizia finalmente fatta, con molti delegati con l’orecchio destro incerottato, per sintonia con Trump dopo il pericoloso attentato. Vinceremo e Trump sarà vendicato e risarcito. La vittoria nel 2024 come prova che il 2020 fu un furto, dato che altre prove non esistono.

La Corte Suprema e il giudizio controverso

La Corte Suprema ha sottoscritto di fatto questa tesi, impedendo finora che gli avvenimenti del gennaio 2021 (assalto al Campidoglio ispirato e incitato da Trump stesso) arrivassero a giudizio. Lo ha fatto perché la maggioranza dei nove giudici è parte integrante ormai della degenerazione politica e morale dei repubblicani, convinti che la vittoria giustifichi ogni metodo, ogni ambiguità, ogni menzogna, ogni eliminazione politica dei settori moderati del partito, data la superiorità storica e morale delle proprie posizioni, le sole veramente “americane”. Gli elettori Usa andranno quindi a votare a novembre senza sapere, dalla loro suprema magistratura, se quattro anni fa vi fu o no un tentato colpo di Stato. E vi fu, perché come le indagini della Commissione speciale della Camera e altri hanno dimostrato, la folla sul Campidoglio doveva essere solo la cornice di una falsificazione trumpiana dei risultati elettorali già pronta e che il vicepresidente Mike Pence, in qualità di presidente del Senato, si rifiutò di sancire, per fortuna del suo Paese e della Giustizia.

Mike Pence: l’eroe tradito e gli elettori fasulli

Per questo Pence è da allora un nemico per Trump, un paria per i trumpiani, e semplicemente una persona perbene per tutti gli altri. Gli uomini di Trump erano pronti a falsificare i risultati giustificandosi con le presunte falsificazioni altrui, che mai da allora hanno saputo dimostrare, ma continuano a citare, a partire da Trump medesimo. Come noto, nel sistema americano conta anche la dislocazione geografica dei voti, perché gli elettori, cioè il voto popolare, non eleggono il presidente, ma Stato per Stato eleggono in realtà i “grandi elettori” pari al numero dei deputati più i due senatori di ciascun Stato e questi, rispettando la scelta popolare, come vuole il sistema, eleggono poi il Presidente. Il golpe elettorale del 6 dicembre 2021 si basava Stato per Stato, fra quanti vinti da Biden con margini ridotti, sull’ “obiezione di coscienza” dei grandi elettori trumpiani che, invocando brogli democratici mai dimostrati, e mai esistiti, indicavano la scelta per Trump e non per Biden anche se nel loro Stato aveva avuto più voti popolari Biden. Vari di questi fake electors, elettori fasulli, erano nei giorni scorsi delegati ufficiali repubblicani a Milwaukee, per conto di Georgia Pennsylvania Michigan Nevada New Mexico e Wisconsin.

Fox e Dominion: un risarcimento milionario

I 787 milioni di risarcimento per diffamazione, cifra record, pagati nell’aprile 2023 da Fox, la trumpianissima rete tv di Rupert Murdoch, alla Dominion, nota produttrice di dispositivi elettorali, truccati a favore di Biden diceva Trump e ripeteva Fox, hanno o dovrebbero aver messo una pietra tombale su questa storia. Ma la suprema magistratura ha fatto finta di niente autorizzando così Trump, ancora nel discorso di accettazione di Milwaukee, a dichiarare “che mai più accetteremo risultati come quelli del 2020”. Se vinciamo è vittoria il 5 novembre, e vinceremo, ma se dovessimo perdere sono brogli e vinciamo lo stesso. Questo è oggi lo stato della democrazia americana per un buon terzo del Paese.

Democratici alla resa dei conti

Elettoralmente, resta da vedere se e come i democratici riusciranno a tenere alta la torcia della vera Giustizia, nonostante la Corte Suprema, e nonostante la probabilmente imminente e inevitabile marcia indietro di Joe Biden. Per gli Stati Uniti, e anche nei rapporti con un’Europa che conosce benissimo e alla quale ha dedicato parte notevole del suo lungo lavoro al Senato, Biden è stato un buon presidente. Ma gli anni incalzano, e si vedono. Kamala Harris? Forse, ma a molti non sembra la più indicata. Nonostante tutto quanto è accaduto, nonostante il clima e i tempi di emergenza in cui viene cambiata la squadra, se l’operazione è fatta bene, con prontezza, senza particolari rivalità cioè entro pochi giorni da oggi e non a una Convention divisiva, se il partito si raccoglie attorno al nuovo candidato, la vittoria di Trump non è ancora scontata. E il motivo è semplice: nei circa 130-150 milioni di americani che vanno a votare Trump non ha affatto la maggioranza. E, nonostante i sondaggi, potrebbe avere meno voti di quanti ricevuti nel 2020.

Il ritorno dell’isolazionismo: Vance dopo Trump?

Storicamente, stiamo assistendo alla quarta grande ondata dell’isolazionismo nella Storia americana. Isolazionismo è una visione americanocentrica, il rifiuto di venire coinvolti da altre aree geografiche, e fa parte del bagaglio storico, più che giustificato quando l’Europa governava il mondo e gli Stati Uniti erano deboli e attenti a non farsi trascinare dalle potenze europee in lotta, le guerre napoleoniche l’esempio migliore. Poi il Paese è cresciuto, si è gettato nella corsa alle colonie nonostante la retorica anticoloniale (Cuba Portorico le Filippine e altro), ha ambito a prendere il ruolo britannico come perno finanziario-industriale del mondo, fatto confermato con la Prima guerra mondiale. Ma subito c’è stato il primo grande ritorno dell’isolazionismo, che distruggeva le ambizioni postbelliche del presidente Woodrow Wilson. Affari ovunque, diplomazia e militari al minimo, e con i bilanci sotto lo stretto controllo del Congresso, alleanze con nessuno. Un recente articolo su Russia e Ucraina di James David Vance, neo senatore dell’Ohio scelto da Trump come vicepresidente e abilmente sua perfetta clonazione, è stato paragonato dal New York Times agli articoli e ai discorsi che il repubblicano Robert Taft produceva, prima di Pearl Harbour, sui rapporti con l’Europa e Hitler: appeasement, cioè trovare un accordo, era la linea, Hitler era troppo forte e poi, non erano primari interessi americani. “Per la verità, non mi importa molto di quanto succede all’Ucraina, in un modo o nell’altro”, è la linea di Vance. Se la vittoria sarà repubblicana, Vance sarà il futuro di quel partito, dato che Trump non potrà avere un terzo mandato. Dopo un Trump, un Vance? E chi potrà sopravvivere a tanto furore?

Una minaccia per l’Europa e la Nato

Taft tornava nel dopoguerra, con la terza ondata isolazionista, e contrastava la Nato, sostenendo che l’alleanza con gli europei malridotti avrebbe creato infiniti problemi agli Stati Uniti portandoli in un’area che non era la loro.

La quarta ondata è quella attuale, trumpiana, ma preannunciata nel caso europeo da alcune scelte fatte da Barack Obama, presidente poco interessato all’Europa. È particolarmente insidiosa perché congiunta a una ormai lunga stagione populista, di sfiducia nelle élites, innescata a suo tempo dalla guerra in Vietnam e rilanciata dalla crisi finanziaria del 2008, che è stata l’incubatrice del trumpismo. Isolazionismo e populismo sono una miscela rischiosa, perché guardano alla politica estera e alla Storia, che ne è la matrice, dai beer joints e dai coffe shops di tutta l’Appalacchia e di tutta la rust belt e aree simili, di cui Vance si definisce figlio e interprete (dopo Yale e cinque pingui anni di finanza hightech in California), e ne riflettono la perspicace e bene informata visione. È gente che, notoriamente, sa tutto dell’Europa, dal Congresso di Vienna in poi.

Inevitabilmente Trump, con il sostegno di Vance, vede per l’Europa la necessità di un accordo con la Russia. Che era poi, fino a pochissime settimane prima della morte a inizio 1945, la linea di Franklin Roosevelt, convinto che l’Europa sarebbe stata nell’orbita di Mosca e sordo alle preoccupazioni di Churchill sul futuro europeo. Harry Truman, il generale George Marshall e il senatore repubblicano Arthur Vandenberg, ex isolazionista inventato internazionalista, cambiarono poi tutto.

Nato a rischio: la visione di Trump

Mosca vuole far saltare la Nato. E Trump pure. “Trump in un secondo mandato ritirerà gli Stati Uniti dalla Nato”, ha ribadito questa settimana John Bolton, un falco in politica estera, già consigliere per la sicurezza nazionale di Trump e dimissionario dopo un anno e mezzo, inorridito, nel settembre del 2019. “Trump non è normale, e da lui c’è da aspettarsi di tutto”.

Resta un mistero quanto sia lungimirante la visione di chi, come Trump, prevede un duro scontro con Pechino ma potrebbe presto fare questo enorme regalo, di un’Europa senza Nato, al più stretto alleato e amico di Pechino. “È una persona che non ha idea di che cosa l’America rappresenta e nessuna idea di che cosa America vuol dire”, ha detto di Trump il suo ex capo di gabinetto (luglio 2017-dicembre 2018), il generale John F. Kelley. “Una persona che ha solo disprezzo per le nostre istituzioni democratiche, la nostra Costituzione e lo Stato di diritto”.

Il piano di Mosca e la nuova era di Trump

Finita la Nato, cioè il legame innaturale, secondo Mosca, fra le due sponde dell’Atlantico, si tratterrà nell’ottica moscovita di passare all’attacco della Ue, l’innaturale (secondo Mosca) alleanza fra i Paesi europei creata sempre su spinta americana (il piano Marshall) per impedire a Mosca il controllo del continente. La Russia non ha mai voluto alleanze in Europa perché le considera sempre in funzione anti-russa. La Russia vuole in Europa la sua zona di influenza, la sua grande Finlandia, insomma, e già poco meno di 200 anni fa, nell’Europa postnapoleonica, Alphonse de Custine lo scriveva a chiare lettere nel suo La Russie en 1839, pubblicato due anni dopo. Cento anni dopo, nel 1939 a novembre, Stalin mandava il suo ministro degli Esteri, Molotov, a Berlino, già alleata dall’agosto precedente, per vedere se l’asse Berlino-Roma-Tokyo poteva diventare una quadruplice alleanza per riconoscere anche a Mosca una sua zona di influenza. Ma voleva troppa Europa e troppo Mediterraneo orientale, e non se ne fece nulla.

È probabile che Trump, Vance e il loro partito repubblicano ci costringano presto a molte riflessioni, e a qualche rilettura. Che poi loro si preparino a fare con questo il vero interesse del Paese che verosimilmente si appresta ad eleggerli, è tutta un’altra questione.

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