Il protezionismo conserva, il libero scambio distrugge i paesi più vecchi e spinge all’estremo l’antagonismo tra proletariato e borghesia, accelerando la rivoluzione sociale. È per questo, signori, che io voto a favore del libero scambio. È il 9 febbraio 1848 e con queste parole Marx conclude il suo discorso davanti a un’assemblea di operai a Bruxelles. Il tema è caldissimo.
Gli industriali inglesi sono da poco riusciti ad abrogare le leggi sul grano, che con i loro dazi proteggevano i proprietari terrieri dalla concorrenza dell’agricoltura francese. Ora il grano costa molto meno e gli industriali possono pagare meno le maestranze, che infatti sono irrequiete e deluse. Era stato loro promesso il pane a buon mercato, ma non la diminuzione dei salari.
Quaranta anni più tardi Friedrich Engels, da sempre sodale e finanziatore di Marx, rilegge il discorso di Bruxelles e ne ricava interessanti riflessioni. Engels, che è rivoluzionario ma è anche un industriale intelligente, coglie perfettamente i limiti del protezionismo. Se si protegge un’industria, dice, si danneggiano le altre dello stesso paese e si finisce con il dovere proteggere anche queste. Se si protegge tutto, d’altra parte, non ci si può illudere che gli altri paesi non facciano altrettanto.
L’America fa però bene a proteggere la sua industria perché è in una fase nascente. In questo modo si svilupperà più in fretta e sarà pronta a superare l’industria britannica e a competere con questa in meno tempo di quello che sarebbe occorso senza protezioni. Alla fine, in ogni caso, l’adozione generalizzata del libero scambio, unita alla crescita della produttività, accelererà lo sviluppo globale senza che il lavoro ne tragga beneficio. Da qui la rinnovata convinzione che il libero scambio accelererà la rivoluzione. Il dibattito sul commercio internazionale attraversa tutto l’Ottocento. Il secolo si apre all’insegna del protezionismo e si chiude all’insegna dell’imperialismo, ma la parte più interessante, vista oggi, è quella di mezzo, quando il libero scambio sembra prevalere, almeno a livello ideologico, e cerca di capire la propria ragion d’essere.
Si avverte fra i vittoriani (si veda The Mid-Victorian Generation 1846-1886 a cura di T. Hoppen) un afflato iniziale febbrile e perfino religioso per la globalizzazione. Gesù Cristo è il Libero Scambio e il Libero Scambio è Gesù Cristo, afferma in un discorso l’unitariano utopista Sir John Bowring, futuro governatore di Hong Kong. La globalizzazione, si pensa, porterà con sé fratellanza, pace universale perpetua e crescita economica. Per chi dovesse rimanere temporaneamente indietro vengono varate a più riprese le leggi sui poveri, una forma rudimentale di salario di cittadinanza.
Nella sua prima fase l’entusiasmo per il libero scambio unisce i Little Englanders (gli isolazionisti che sostengono che ci si può disfare dell’impero perché il commercio globale lo renderà superfluo) e gli imperialisti, che sostengono l’integrazione a due velocità, più rapida all’interno dell’impero e necessariamente più lenta con il resto del mondo. Saranno questi ultimi, molto presto, a prevalere. Ai primi segni di difficoltà per gli esportatori inglesi sarà la diplomazia delle cannoniere ad aprire la strada al libero commercio.
Con un secolo e mezzo di esperienza storica in più dei vittoriani possiamo permetterci oggi di essere globalisti adulti e ammettere alcune verità. La prima è che la pressione verso il libero scambio viene sempre dal più forte e dal più competitivo, che di solito è anche quello che ha una capacità produttiva superiore alla sua domanda interna. L’Inghilterra vittoriana, gli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale e la Cina di oggi (nonché, in ambito regionale, la Germania) sono stati e sono esattamente in questa situazione.
La narrazione, da Sir John Bowring fino a Xi Jinping a Davos, non sottolinea questo aspetto, che è però importante, e punta invece su valori come la libertà e la pace. La seconda è che la globalizzazione è un indicatore ritardato, non anticipato, della crescita. Ovvero ne è un effetto, non una causa. Il famigerato Smoot-Hawley Act dal 1930, con il quale vengono raddoppiate le tariffe doganali americane, è figlio, non padre, di una caduta della produzione e dell’occupazione già iniziata da quasi un anno. Per quanto sia da tutti riconosciuto che questa misura (cui ovviamente corrisposero contromisure da parte dei partner commerciali) danneggiò ulteriormente l’economia, è alle politiche monetarie e fiscali che va ascritta la responsabilità prima della crisi.
Simmetricamente, lo smantellamento dello Smoot-Hawley nel 1934 dette un contributo alla ripresa, ma non ne fu la causa prima, anche in questo caso monetaria e fiscale. Roosevelt, del resto, si guardò bene dall’eliminare i dazi del 25 per cento in vigore prima del 1930. Fu solo con la fine della seconda guerra mondiale che gli Stati Uniti, usciti vincitori con un apparato industriale enormemente cresciuto, disegnarono un ordine mondiale orientato al libero scambio. Il Piano Marshall fu del resto una grande operazione di vendor financing, simile a quanto fa oggi la Cina in molte parti del mondo, in cui si dava sfogo all’eccessiva capacità produttiva americana dando tempo all’Europa di rimettersi in piedi.
La terza osservazione è che una globalizzazione gestita male, come ben sappiamo in Italia, può essere distruttiva se il paese che la subisce è poco flessibile. Trump, ideologicamente, non è protezionista e il timore dei mercati obbligazionari sulle conseguenze inflazionistiche della sua politica sono eccessivi. Trump ha certamente un mandato da parte degli elettori degli stati di vecchia industrializzazione (determinanti nel farlo vincere in novembre e decisivi nel farlo eventualmente rieleggere nel 2020) di fermare l’emorragia di fabbriche e posti di lavoro. Il ritorno dal Messico al Michigan causerà certamente un forte aumento del costo del lavoro per dipendente, ma molti lavoratori saranno sostituiti da robot che non sarebbe economico utilizzare in Messico.
In pratica si avranno più investimenti in tecnologia e più produttività e gli aumenti dei prezzi finali saranno limitati. Se così sarà, si può obiettare, verranno messi sotto pressione i margini delle imprese. Vero, ma fino a un certo punto. Ci sarà infatti uno scambio. L’industria dell’auto che ritorna a casa vedrà ridotta la pressione dei regolatori sull’efficienza energetica. Il farmaceutico che dovrà competere per le commesse di Medicare cederà pricing power al governo, ma avrà in cambio un’accelerazione e semplificazione del costoso iter per l’approvazione dei nuovi farmaci, quelli su cui fa tipicamente più utili. I contratti con le imprese della difesa verranno tutti rinegoziati con ampi tagli dei prezzi, ma in cambio le commesse aumenteranno. Solo banche ed energia riceveranno (attraverso deregulation e tasse più basse) più di quello che dovranno concedere.
L’inflazione sarà poi tenuta a bada dal dollaro forte e dagli aumenti dei tassi. Certo Trump e Mnuchin cercheranno periodicamente di gettare acqua gelata sul dollaro, ma l’impressione è che riusciranno probabilmente a bloccarlo, ma non a invertirne la tendenza naturale al rafforzamento.
Quanto alla Cina, nuovo campione del libero scambio, tutto verrà rimesso in discussione. Le armi di Trump sono Taiwan, il riavvicinamento con la Russia, un Nafta riformato e allargato al Regno Unito che penalizzi l’import dalla Cina e, in extremis, l’imposizione di tariffe che potrebbero arrivare al 45 per cento.
La Cina ha in mano la carta della Corea del Nord, che solo lei può tentare di controllare, la possibilità di svalutare e quella di minacciare la vendita di titoli del Tesoro americani, che farebbe salire i tassi (ma anche scendere il dollaro). Prima di entrare nel vivo delle trattative ci sarà comunque una fase in cui Trump e Xi cercheranno di prendersi le misure, con Kissinger dietro le quinte che cercherà di mantenere il confronto in termini razionali. Già stasera avremo modo di esaminare i primi decreti della nuova amministrazione. Dollaro, bond e borse non ci sembrano troppo lontani dai valori che, per quanto è dato di capire, ci si potrebbe attendere. Attenzione, però, da oggi entriamo in un mondo nuovo.