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Trump alle prese con il bilancio dei suoi primi 100 giorni. Mancano 1.362 giorni alla fine del suo mandato

FIRSTonline

Si può raccontare in due modi. I primi 100 giorni di Trump, oppure l’avvio del countdown: mancano 1.362 giorni alla fine del suo mandato nel 2029, fa notare Reuters. Stasera nello Stato del Michigan, che ha aiutato The Donald per la seconda volta a vincere le elezioni, il cuore industriale dell’America, Trump celebrerà i primi 100 giorni alla Casa Bianca, il traguardo in base al quale sono stati valutati tutti i presidenti da Roosevelt a oggi. Questo traguardo arriva in un periodo caratterizzato da una guerra commerciale e da diversi conflitti reali, ma anche molti sondaggi cn basso tasso di popolarità.

Che cosa c’è di più simbolico del biglietto verde per fotografare quest periodo: l’indice DXY del dollaro, rispetto a un paniere di altre valute dei mercati sviluppati, ha perso quasi il 10%. Si tratta di un record negativo degli ultimi cinquant’anni, da quando Richard Nixon staccò il dollaro dall’oro nel 1971. Trump 2.0 è invece diventato speculare rispetto ai primi 100 giorni di Ronald Reagan, quando invece lo stesso indice aumentò del 10%.

Il divario tra la narrativa di Trump e i sondaggi

Dal 20 gennaio, l’attività della nuova amministrazione Usa sotto Trump II è stata tanto frenetica quanto caotica. Stasera Trump dirà che sono stati “i cento giorni di maggior successo nella storia di qualunque amministrazione americana” e che “centinaia di promesse sono già state mantenute”, in particolare sul controllo dei confini e per porre fine all’inflazione. La rivista Atlantic gli ha chiesto se percepisca questo secondo mandato in modo diverso dal primo. “La prima volta dovevo gestire il Paese e sopravvivere”, ha risposto riferendosi agli “imbroglioni” che lo avevano circondato (ora ha i suoi fedelissimi nel governo e la maggioranza repubblicana alla Camera e al Senato). “Adesso gestisco il Paese e il mondo. E mi diverto molto, considerato quel che faccio, che è roba seria”.

Questa sua percezione non pare essere perfettamente coicidente con la realtà a giudicare da numerosi sondaggi che mostrano un basso tasso di popolarità del presidente: per il Nytimes/Siena al 42%; Nbc al 45%; Fox, Gallup e Cnbc al 44%. Il più basso è del Washington Post/Ipsos/Abc al 39%. Per la maggior parte, Trump va leggermente meglio che nello stesso periodo del suo primo mandato (41%), ma è in discesa rispetto ai mesi scorsi e al di sotto dei suoi predecessori dalla Seconda Guerra mondiale in poi.

Ci può stare che un presidente registri un calo del consenso nei primi mesi di presidenza, scrive il New York Times: nel caso di Trump è sceso un po’ più rapidamente rispetto a recenti predecessori ma non è una cosa senza precedenti. I repubblicani restano per la maggior parte con lui. Tuttavia ci sono alcuni chiari segnali che dovrebbero allertare il presidente Usa: ha perso terreno sull’economia, che era una delle ragioni principali della sua rielezione e anche se l’immigrazione resta il tema su cui è tuttora più forte, alcuni sondaggi mostrano una leggera erosione anche qui

Le prospettive del dollaro e dei suoi concorrenti

Sebbene azioni, obbligazioni e materie prime abbiano registrato rimbalzi significativi dopo la svendita successiva al Giorno della Liberazione del 2 aprile, il dollaro non si è unito a loro. Ciò implica che gli investitori stranieri abbiano venduto gran parte del loro capitale, mentre gli investitori nazionali devono ancora acquistare. Deutsche Bank prevede che il dollaro si avvicinerà sempre di più al livello di 1,30 dollari, livello al quale ha la parità di potere d’acquisto con l’euro, per il resto del decennio. Attualmente, l’euro si attesta a 1,13/14 dollari.

Questo non significa necessariamente che si debba considerare Trump 2.0 come un segnale della fine dell’egemonia del dollaro, sebbene si presti a questa narrazione. Come sottolinea Neil Shearing di Capital Economics, circa il 90% delle transazioni transfrontaliere è denominato in dollari, una cifra ben superiore a quanto si evincerebbe dalla quota statunitense del PIL o del commercio globale. “In effetti, gli Stati Uniti forniscono l’impianto finanziario per l’economia globale. Questo conferisce loro un’enorme influenza”. Inoltre non c’è un ben definito concorrente in agguato, a causa dei problemi istituzionali dell’euro e della riluttanza della Cina a revocare i controlli sui capitali. Ma è sensato chiedersi se questo sia l’inizio di uno dei lunghi cicli ribassisti del dollaro e se la fiducia possa essere stata scafita.

Per Wall Street sono i peggiori 100 giorni da Reagan

I primi 100 giorni di Trump 2.0 si sono rivelati i peggiori a partire da Reagan. Era in una lotta serrata con George W. Bush per il titolo, ma l’indice S&P 500, ora in calo dell’8-9%, ha fatto leggermente peggio questa volta, dice Bloomberg. Bisogna anche dire che mentre quando è arrivato Trump il mercato era alle stelle, mentre con Obama per esempio era sui minimi, nel pieno della peggiore crisi finanziaria da quasi un secolo.

Il calo dell’8% dell’indice S&P 500, registrato tra il giuramento di Trump il 20 gennaio e la chiusura del 25 aprile, rappresenta la seconda peggiore performance nei primi 100 giorni dopo il crollo del 9,9% nel 1973 durante la presidenza Nixon, secondo dati di CFRA Research. Il calo di Wall Street durante la presidenza Nixon avvenne che una serie di misure economiche adottate per combattere l’inflazione provocarono la recessione del 1973-1975. Nixon si dimise poi nel 1974 a causa dello scandalo Watergate. In media, l’S&P 500 sale del 2,1% nei primi 100 giorni di qualsiasi presidente, nei dati degli anni post-elettorali dal 1944 al 2020, sempre secondo i dati CFRA. Le altre maggiori performance negative nei primi 100 giorni sono state quelle di Bush nel 2001 (-6,9%), Eisenhower nel 1953 (-5,8%) e Truman nel 1949 (-4,9%). Le migliori sono state quelle di Kennedy nel 1961 (+8,9%), Biden nel 2021 (+8,5%) e Obama nel 2009 (+8,4%).

Eppure Wall Street era entusiasta di Trump, dei suoi piani di tagli fiscali e deregolamentazione.

Molta attività, pochi fatti concreti

I portavoce di Trump non perdono occasione di sottolineare la potenza di fuoco del presidente: dal 20 gennaio ha firmato oltre 130 ordini esecutivi, circa tre volte quelli di Biden. Tuttavia l’impatto in molti casi è ancora incerto. Nel primo giorno alla Casa Bianca, per esempio, ha dichiarato l’emergenza energetica e la spinta alla produzione, ma non ci saranno riduzioni dei costi delle bollette prima del prossimo anno. Alcuni obiettivi poi risultano contraddittori: da un parte ha promesso di ridurre l’inflazione, ma è molto difficile che ci riesca dopo l‘imposizione dei dazi. L’inflazione era già in un trend discendente: dopo essere arrivata al 9,1% nel 2022, era al 3% lo scorso gennaio, il mese in cui Trump si è insediato, ed è scesa al 2,4% a marzo. “Abbiamo risolto l’inflazione”, ha proclamato Trump. Ma la Federal Reserve avverte che i dazi porteranno probabilmente a prezzi più alti.

Sono già state intraprese oltre 80 cause giudiziarie contro i suoi ordini esecutivi su immigrazione, politiche di genere e sul clima e anche in questo caso non si può conoscere ora il finale.

Trump sta già studiano i siluri per i prossimi 100 giorni

Se i sondaggi lo indicano come il meno amato della storia, Trump non ne resta scalfito tanto che sta già lavorando a “nuovi siluri” dei prossimi 100 giorni, come rivelano alcuni funzionari a Reuters.

Il presidente ha fatto sapere che ora intende concentrarsi sui colloqui di pace e sulle trattative per gli accordi sui dazi in vista di luglio, quando scadranno i 90 giorni di pausa concessi sulle tariffe reciproche. La posta in gioco è alta: l’entrata in vigore dei dazi annunciati il 2 aprile, il ‘giorno della liberazione’, rischia di avere un impatto economico devastante per gli Stati Uniti, come anchìe Wall Street ha cercato, a suon di crolli, di far capire al tycoon. I negoziati con l’Unione Europea appaiono in salita e anche il tentativo della premier Giorgia Meloni di far incontrare a Roma Trump e von der Leyen non sembra aver avuto successo. Le trattaive con la Cina devono, almeno formalmente, ancora iniziare. Al momento c’è la notizia che Trump voglia fare un passo indietro sui dazi delle auto e domani ha organizzato un meeting con le maggiori aziende del mondo: ospiterà alla Casa Bianca una trentina di dirigenti di Nvidia, Toyota, SoftBank e Hyundai.

I colloqui di pace in bilico

Al dossier commerciale si aggiunge quello dei colloqui di pace per l’Ucraina e per Gaza. Mentre le trattative con l’Iran sul nucleare sembrano progredire, sulle tensioni fra Israele e Gaza la situazione appare in stallo, con i contatti fra Washington e Teheran che rischiano di rappresentare un ostacolo con il premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Gli sforzi della Casa Bianca sono concentrati in queste settimane sull’Ucraina anche se al momento la pace resta ancora lontana. Trump aveva promesso durante la campagna elettorale di risolvere la guerra in 24 ore, per poi essere costretto a identificare in sei mesi un arco temporale “realistico”. L’incontro fra il presidente e Volodymyr Zelensky a San Pietro, a margine del funerale di papa Francesco, lascia ben sperare ma i prossimi giorni saranno cruciali, come ha detto il segretario di stato Marco Rubio, per “determinare se tutte e due le parti vogliono la pace”.

La promessa mantenuta: la riduzione dell’emergenza migranti

Trump ha tuttavia mantenuto una promessa agli americani nei primi 100 giorni: quella di aver domato l’emergenza migranti. Gli arrivi al confine con il Messico sono crollati e le deportazioni di migranti senza documenti sono in aumento, anche se l’obiettivo di un milione di espulsioni in un anno appare irraggiungibile. I successi sull’immigrazione sono stati ottenuti non senza polemiche: le deportazioni sono state infatti accompagnate da una lunga serie di azioni legali, le ultime in ordine temporale riguardanti tre cittadini americani minorenni inviati in Honduras insieme alle loro madri.

Musk si defila dal Doge dopo migliaia di licenziamenti

Il presidente rivendica come successo anche il Dipartimento per l’Efficienza del Governo di Elon Musk. Il Doge continua a lavorare per ridurre i costi del governo, anche se gli iniziali ‘risparmi’ sono stati annullati dai costi per i migliaia di licenziamenti effettuati. Il dipartimento di Musk, che doveva ridurre la burocrazia federale e ha dato accesso a dati sensibili all’uomo più ricco del mondo, ha cacciato migliaia di impiegati (75 mila hanno accettato la buonuscita, decine di migliaia licenziati anche se alcuni reintegrati temporaneamente dai tribunali). Non si sono materializzati i tagli notevoli ai costi, portando Musk a ridurre le aspettative da 1.000 a 150 miliardi (e non è chiaro se riuscirà). Dopo i problemi finanziari con Tesla, Musk ha annunciato che da maggio si occuperà meno del governo. Secondo il Wall Street journal, il 55% crede che abbia troppo potere. In vista dell’uscita di Musk dal governo, l’amministrazione Trump si sta muovendo per rafforzare il controllo sulle assunzioni privilegiando chi è “fedele alla legge e alle politiche del presidente”. Anche il Doge si è attirato decine di cause per i suoi tagli ritenuti indiscriminati.

L’ultima frontiera: le università

Ma Trump non poteva non includere nei suoi raid anche le università. Harvard, la più antica e prestigiosa università americana è diventata il simbolo della resistenza all’amministrazione Trump. Dopo mesi di manifestazioni studentesche a sostegno della causa palestinese nel proprio campus universitario, il governo federale ha intimato all’ateneo di smantellare gli accampamenti, sopprimere i programmi dedicati alla diversità e rivedere i criteri di ammissione di studenti e professori. Al che l’università del Massachusetts ha deciso di respingere con decisione le richieste, giudicandole contrarie alla Costituzione. In risposta, la Casa Bianca ha bloccato 2,2 miliardi di dollari di fondi federali e minacciato di revocare lo status fiscale agevolato dell’istituzione. La controversia, destinata con ogni probabilità ad approdare in tribunale, potrebbe ridefinire l’estensione del potere federale sulle università private negli Stati Uniti. Il primo bersaglio è stata la Columbia University di New York, dove Trump ha bloccato 400 milioni di dollari di fondi federali, costringendo l’ateneo a limitare le attività di dipartimenti come quelli per gli studi mediorientali, considerati centri di attivismo anti-israeliano.

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