Nella nutrita batteria di decisioni controverse delle prime ore spicca la più preannunciata e logica, nel Trump-pensiero, e la più gravida di conseguenze: il perdono per oltre 1500 suoi fedelissimi, protagonisti dell’assalto al Campidoglio americano quattro anni fa. Molti di loro sono stati inquisiti e condannati a pene varie, da pochi giorni e una multa a 22 anni di carcere. Ma se è vera la fandonia che lui era il vero vincitore nel 2020 è vera anche quella secondo cui loro volevano entrare al Congresso solo per salutare qualche senatore. Trump non poteva tornare alla Casa Bianca e lasciarli in galera o comunque penalmente marchiati. Passano così alla Storia, nel Trump-pensiero, quali patrioti ed eroi, come lui del resto, per decisione popolare del 5 novembre scorso.
Perdono a Capitol Hill: l’impatto sulla giustizia
Il sistema giudiziario americano esce sconvolto da questa decisione presidenziale di perdono di massa, per più aspetti incredibile, come incredibile è la fandonia delle elezioni rubate. Ma c’era da aspettarselo dopo che la Corte Suprema, con la sentenza resa pubblica il 1° luglio 2024, aveva coperto qualsiasi responsabilità di Trump gonfiando all’infinito il principio dell’immunità penale per ogni presidente, esteso ben oltre i limiti della Costituzione e della tradizione legale del Paese. Sostenendo implicitamente che anche l’aver istigato i fatti del 6 gennaio 2021, chiaramente a vantaggio dei propri interessi elettorali e a totale discredito delle istituzioni, era coperto dall’immunità presidenziale, perché quel giorno Trump era ancora presidente, sia pure solo ancora per due settimane. Del resto la suprema Corte nonostante le richieste di farlo si è ben guardata dall’esprimere anche solo un’opinione sull’assalto al Campidoglio di quattro anni fa, opinione che non avrebbe potuto essere che di condanna.
La vendetta di Trump e la riorganizzazione del potere
Poiché tutto si tiene D. John Sauer, avvocato personale di Trump, ha quindi chiesto adesso (a settembre, ma si sa da pochi giorni) l’annullamento per immunità di una pesante condanna, gli 83 milioni da pagare come risarcimento per diffamazione e calunnie a E. Jean Carroll, giornalista che sosteneva nel 2019 di aver subito un tentativo di stupro. L’immunità presidenziale manleverebbe quindi, secondo Trump, anche da comportamenti inaccettabili tenuti da un futuro presidente (i fatti risalgono a circa 30 anni fa) in epoca e circostanze del tutto private. Sauer è stato nominato giorni fa solicitor general cioè quarto nella gerarchia del ministero della Giustizia con il compito di rappresentare il governo di fronte alla Corte Suprema.
“Il sabotaggio della giustizia come filosofia di vita”, scriveva di Trump nel 2020 John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale nel primo mandato Trump e autore nel 2020 di The Room Where it Happened, caustici ricordi del suo lavoro per 17 mesi nel 2018-19 alla Casa Bianca. Mesi fa, nella seconda edizione di queste memorie, Bolton aggiungeva un ammonimento preveggente: “A Trump interessano solo le punizioni per vendetta personale, e impiegherà una parte non piccola del secondo mandato per vendicarsi”.
Trump e il ritorno del populismo
La solidità della base trumpiana è chiara. Trump non l’ha creata, l’ha incontrata. Milioni di americani aspettavano, a volte da molti decenni, qualcuno che avesse le sue parole e le sue mosse. Trump è pessimo ma non è uno sciocco, nei suoi virtuosismi perversi, e ha capito perfettamente nel 2023-2024 quali realtà, a partire dall’immigrazione e dalla dichiarata lotta al deep state “liberticida”, potevano riportarlo a Washington.
Ma il suo bagaglio di idee è limitato e soprattutto vecchio. In un’analisi di questi giorni un po’ troppo ottimistica, “How Trump Will Fail”, come Trump fallirà, a firma di David Brooks, uno dei più noti opinionisti del New York Times, la tesi è che il fallimento deriverà dall’avere una squadra a sua immagine, più di guastatori che di creatori. Cambiare cambiare, ma come? L’attacco del pezzo merita una citazione. “Dopo quattro anni, dobbiamo di nuovo perlustrare le profonde caverne del cervello di Donald Trump. Ci arrampichiamo oltre il suo ego che, va notato, fornisce l’87 per cento del tessuto neurologico; scaviamo sotto il nucleus succumbens, la regione cerebrale dove elabora su come imbrogliare a golf; e poi giù, diretti al centro del sistema limbico, dove troviamo una cosa strana – il mio manuale di storia del terzo anno delle superiori.” Come dire, è a quel livello da highschool che si ferma la conoscenza trumpiana di come il mondo è diventato quello che è.
È lo stesso sillabario al quale in una precedente edizione si abbeverava attorno al 1890 il variegato e variopinto populismo americano, allora ormai una forza politica temibile nel Midwest e nel Sud, e dal quale il MAGA trumpiano ha preso non poco. Lo slogan America First, in realtà nella versione di America First and Always, veniva alla luce una prima volta nel 1884 su un giornale di Oakland parlando delle tensioni commerciali con la Gran Bretagna. America First diventerà universale e usato da due presidenti: Woodrow Wilson nel 1916 in versione internazionalista, Warren Harding nel 1920, in senso nazionalista e isolazionista, pre-trumpiano. America First è una banalità diceva un editoriale del New York Times nell’ottobre del 20. I politici europei, scriveva però un mese dopo lo stesso giornale, a vittoria di Harding acquisita, sono preoccupati da un’America che lascia la scena mondiale, e si consolano a vicenda dicendo che gli Stati Uniti non seguiranno questa linea a lungo. La seguiranno per oltre 20 anni, fino a Pearl Harbour.
Dai primissimi segnali di questa seconda presidenza Trump emergono tuttavia anche scricchiolii confusione e troppa voglia di épater les bourgeois.
Vendetta, caos e fedeltà: i primi giorni di Trump 2.0
Pete Hegseth, un maggiore della guardia nazionale del Minnesota diventato conduttore tv a Fox News, sorprendente neoministro della Difesa per meriti di fedeltà a Trump e confermato con un solo voto di scarto su 100 al Senato, sostituisce un generale a quattro stelle, e ha subito eseguito la prima vendetta militare: togliere la protezione di sicurezza al generale Mark Milley, ora in pensione. La protezione esisteva per il ruolo avuto da Milley, nell’uccisione con un drone cinque anni, fa del leader militare iraniano Qassim Suleimani, seguita dalle minacce di vendetta di Teheran. È arrivata prima la vendetta di Trump per l’ex capo di Stato Maggiore interforze dal 2019 al 2023, protagonista di numerosi duri scontri con il presidente. Veniva accusato da Trump di tradimento per vari motivi, ma soprattutto per le due telefonate con cui tranquillizzò durante l’assalto al Campidoglio di 4 anni fa il suo pari grado cinese dopo che rapporti di intelligence avvertivano su un timore a Pechino di un attacco americano alla Cina. Nell’occasione Milley avrebbe detto al collega cinese di poter garantire l’assenza di pericoli, ma di non essere in grado di valutare le condizioni mentali di Trump. Milley è protetto dal perdono concessogli da Biden il 20 gennaio scorso. Ma Hegseth ha annunciato comunque l’apertura di un’inchiesta con l’obiettivo di degradare il generale, che al momento della pensione nel settembre 2023 ricordò come i militari giurano fedeltà alla Costituzione e non a un “aspirante dittatore”. Il 20 gennaio scorso su ordine della Casa Bianca il ritratto di Milley è stato tolto dalla collezione dove compaiono tutti i supremi comandanti interforze. Proprio come nella Russia sovietica e forse anche putiniana: il nemico, se non ammazzato, va comunque cancellato.
Huyen “Steven” Cheung, il rotondo e pugilistic, come lo apostrofa la stampa americana, portavoce cino-americano di Trump, sostiene ora che “sulla base delle decisioni storiche prese dal presidente in meno di una settimana il Paese è di nuovo sui binari giusti”. Ma c’è anche chi definisce i primi giorni di Trump come una versione americana, senza sangue apparente, della francese notte di San Bartolomeo dell’agosto 1572, quando dall’ordine di re Carlo IX di uccidere alcuni nobili protestanti si scatenò una caccia di religione che sfuggì di mano e fece migliaia di vittime.
Il perdono ai rivoltosi del Campidoglio non è piaciuto, dicono i primi frettolosi sondaggi. Approvata a maggioranza invece la forte stretta all’immigrazione. Non del tutto sgradito il taglio al numero di dipendenti federali, tutti salvo militari e postelegrafonici, che però ha creato confusione: indicato in un modo, corretto in un altro dal presidente in persona; dà tempo fino al 6 febbraio per prenotarsi l’esodo con buonuscita (7 mensilità) entro settembre, ma dopo due giorni ha sollevato il problema delle professionalità che andranno perdute e sostituite.
Non solo, nella mail che annunciava l’opportunità dell’abbandono volontario c’è un oscuro riferimento a indagini e sanzioni fino al licenziamento per chiunque verrà in futuro scoperto in attività illegali, “unlawful”, e altre condotte improprie. Lo spregiatore in capo della giustizia invoca insomma il braccio severo della legge. Che prevede l’obbedienza al presidente. O prima alla Costituzione?
Un capolavoro è stato l’ordine dell’OMB, praticamente il Bilancio federale, di bloccare il 27 gennaio scorso ogni pagamento a ministeri e agenzie varie, fermare cioè una macchina che brucia 6mila miliardi di dollari l’anno, perché ogni spesa andava valutata bene. Solo 36 ore dopo la misura veniva rinviata, perché tutto, dalla sanità per gli anziani (Medicare) a quella per i bisognosi (Medicaid) alle pensioni e disabilità (Social Security) , tutto insomma si stava fermando.
Pesante la supervendetta al Ministero della Giustizia, con la cacciata di chiunque avesse lavorato ai capi di accusa contro Trump per non aver accettato i risultati del voto del 2020. E pesantissima si presenta la situazione all’Fbi. Mentre il direttore in pectore Kash Patel assicurava i senatori occupati a valutare le sue qualificazioni che non sarebbero mai state fatte liste di prescrizione, sono incominciati licenziamenti in tronco. Riguardano quanti misero mano, tra il maggio 2017 e il marzo 2019, all’indagine sui legami tra la campagna di Trump nel 2016 e la Russia e il ruolo degli agenti di Mosca per aiutare la sua elezione e ostacolare quella di Hilary Clinton. Il rapporto concludeva: nessuna cospirazione fra Trump e Putin, che si mosse però per disinformare a favore di Trump e questi lo sapeva.
Patel dice da tempo di voler riportare l’Fbi a essere una forza di polizia contro il crimine e basta, togliendole quindi i vasti poteri che l’incaricano del controspionaggio – per questo si occupò di Trump e della Russia – non solo negli Stati Uniti, ma anche all’estero. Patel all’Fbi è lo spregio ai benpensanti, insieme a Robert Kennedy Jr. ministro della sanità antivaccino, e a Tulsi Gabbard, deputata democratica diventata trumpiana di ferro. Come coordinatore supremo di tutta l’intelligence americana, la Gabbard vorrebbe rivoluzionare il mondo degli analisti e delle spie, a partire da una visione alternativa delle relazioni internazionali. Nel 2017 andò in Siria perché non credeva che Assad usasse i gas contro la sua stessa popolazione. Guarda con occhi “nuovi” a quanti gli spioni americani hanno finora considerato avversari, i russi in primo luogo. Non ha nel suo curriculum un solo giorno come agente segreto.
Seguono poi le tariffe, Canada Messico e Cina per primi. L’Europa verrà dopo.
Trump e il destino dell’Ucraina
Ma è sul tavolo ucraino che si giocherà la prima vitale partita del Vecchio Continente, su come Trump affronterà Putin, sullo spazio che l’Europa avrà nella trattativa dove Putin non la vuole perché da sempre Mosca dice che l’Europa non esiste, e dove Trump non si sa che posto vuole riservarle.
“Trump è ok per Putin perché non ama la Nato“, e la Nato è ciò che Mosca non vuole più in Europa, dice in una recente intervista lo storico americano Stephen Kotkin, per 30 anni a Princeton e ora alla Hoover e a Stanford, autore da ultimo di una monumentale acclamata biografia di Stalin, convinto che Trump sia un enigma anche per se stesso. È un americano quintessenziale, bugie imbrogli e tutto il resto, dice Kotkin. Per definirlo, prende a prestito dal Philip Roth di American Pastoral la sigla di indigenous American berserk, dove berserk viene dall’antico norvegese e sta per “coperto con pelle di orso”, e il tutto è traducibile così: il caos primordiale americano. È per questo che piace a Putin.